Una piuma blu, una macchina da scrivere Olivetti e una visione del mondo in technicolor. Parlare di Anna Piaggi significa evocare un’estetica fuori dal tempo, un lessico visivo anarchico, e una mente in grado di trasformare ogni parola scritta in pura moda. Nata a Milano nel 1931 e scomparsa nel 2012, è stata molto più che giornalista di moda, è stata una performer dell’editoria, una musa della couture, una narratrice visiva. una socialite italiana. capace di unire letteratura, costume e avanguardia in un solo colpo di pagina. Chiunque oggi si chieda chi era Anna Piaggi deve partire da un presupposto: non era una semplice osservatrice della moda, ma un personaggio che la moda l’ha vissuta, decostruita e riscritta con una grammatica tutta sua.
Dagli studi in lingue a Parigi alle redazioni dei giornali
Dopo gli studi in lettere moderne e lingue tra Milano e Parigi, Anna inizia la sua carriera negli anni Cinquanta traducendo romanzi rosa per Mondadori. Ma è nel mondo delle riviste che trova il suo habitat naturale. Collabora prima con Arianna, poi con Vanity, e negli anni Settanta fonda con il marito Alfa Castaldi – noto fotografo – la rivista Vanità, uno dei primi esempi di editoria visiva libera e concettuale in Italia. Il salto definitivo arriva con Vogue, grazie alla lungimiranza di Franca Sozzani. È qui che Piaggi inventa il leggendario D.P. (Doppie Pagine), rubrica collage che per più di vent’anni ha influenzato generazioni di designer, stylist e direttori creativi moda. Utilizzando la sua fedele Olivetti Valentine rossa, creava tavole sinestetiche dove moda, storia dell’arte, cultura pop e citazioni letterarie si fondevano in un vortice caleidoscopico.
L’estetica della differenza
Icona assoluta di sé stessa, è diventata celebre anche per il suo guardaroba esagerato, dove convivevano Vivienne Westwood, Galliano, Stephen Jones, vintage d’archivio e abiti couture su misura. La sua cifra? Un caos estetico armonico, dove ogni pezzo racconta una storia, ogni accostamento è una dichiarazione d’intenti. Indossava parrucche azzurre, ombretti sgargianti, cappelli scultura, broccati barocchi e stampe surrealiste. Era una collezionista compulsiva di moda, accessori e immagini, non vestiva per apparire, ma per esprimere il suo pensiero. Il suo stile era anti-trend per definizione: troppo complesso per essere copiato, troppo personale per essere definito. Un’estetica del dissenso, che ha anticipato l’attuale ossessione per l’individualismo espressivo, i mix & match estremi e l’archiviazione digitale delle immagini.
La penna più influente (e temuta) della moda italiana
Nonostante il suo look eccentrico, era innanzitutto una fine intellettuale. Scriveva articoli brillanti, ironici e densi di riferimenti, capaci di elevare la moda a fenomeno culturale. Il suo approccio era colto, enciclopedico, visionario. Sapeva raccontare un abito come se fosse un personaggio, un dettaglio come se fosse un indizio. Era capace di vedere in anticipo i movimenti della moda e tradurli in parole che lasciavano il segno. Karl Lagerfeld, suo grande amico e ammiratore, la definiva una “biblioteca ambulante”. E non era solo una metafora: il suo archivio contava oltre 2862 vestiti e 265 parrucche, oggi custoditi in parte presso la Fondazione Anna Piaggi, nata per valorizzare il suo straordinario patrimonio culturale.
Anna Piaggi: un’eredità viva più che mai
Nel 2006, il V&A Museum di Londra le dedicò una mostra intitolata “Anna Piaggi: Fashion-ology”, a dimostrazione del suo impatto planetario. Oggi la sua influenza si respira ovunque: nelle nuove forme di editoria visiva su Instagram, nei collage digitali di stylist contemporanei, nei fashion show più teatrali. Artisti, designer e curatori ne riconoscono l’attualità. Anna Piaggi ha anticipato la tendenza all’ipervisualità, al camp estetico, al racconto crossmediale di moda e identità. Ha elevato il giornalismo di moda a scrittura autoriale e artistica, molto prima che questo diventasse un trend.
Il mistero del genio: chi era davvero Anna Piaggi?
Era una giornalista, certo. Una scrittrice. Una stylist concettuale. Una performer. Ma soprattutto era un pensiero vivente, un modo di guardare al mondo con stupore, ironia e profondità. In un’epoca in cui l’informazione corre, l’immagine domina e la moda spesso si svuota di significato, il suo lavoro torna necessario. Perché ricorda che raccontare la moda significa anche saperla decifrare, reinventare, disturbare. Non a caso, le nuove generazioni di creativi la riscoprono come figura guida. Perché in un panorama saturo di contenuti, l’originalità è ancora l’unica vera rivoluzione, e, Anna Piaggi lo sapeva bene. Anzi, lo scriveva — sempre — con la sua Olivetti rossa.