L’estetica è un discorso continuo, etereo, che interessa molti più aspetti di quanto la mente umana sia riuscita sinora a comprendere. La moda condiziona psicologicamente e sposta gli equilibri degli elettori tanto quanto le gesta, le promesse taumaturgiche e gli infiniti giri di parole demagogiche della classe politica mondiale. Lo sanno bene negli Stati Uniti d’America, dove il tailleur “tan suit” di Kamala Harris sta già facendo discutere moltissimo e si è presa di prepotenza le prime pagine di tutti i giornali. Il tailleur beige scuro-cammello, realizzato da Chloé, ha accompagnato la neo candidata democratica alla convention tenutasi in questi giorni a Chicago.
La Democratic National Convention è un momento di svolta nella corsa alla Casa Bianca, con il Presidente uscente Joe Biden che ha colto l’occasione per passare formalmente il testimone alla sua vice, investita del durissimo compito di contrastare il ritorno di Donald Trump. L’eroe Repubblicano che, con la sua rinnovata aura semi-divina, accresciuta ancora maggiormente dopo l’increscioso incidente di Butler, è pronto ad insediarsi nuovamente nello studio ovale spazzando via chiunque provi a frapporsi tra lui e la poltrona più ambita del mondo politico.
Gli esperti lo ribadiscono con convinzione,
e non è certo difficile immaginarselo, che a questi livelli ogni scelta viene presa con giudizio, precisione e minuziosità maniacali. In un momento così delicato per le sorti del nostro pianeta, con il clima di tensione che caratterizza i delicati equilibri politici mondiali, prendere le decisioni giuste è di vitale importanza. Ed ecco che anche un apparentemente innocuo outfit può diventare argomento di approfondimento, analizzato e sviscerato per giorni: per gli osservatori più attenti, infatti, il tan suit di Kamala Harris sarebbe un segnale di continuità di chiaro stampo obamiano. Fu proprio Obama a rompere gli schemi e a presentarsi con un completo beige ad una conferenza stampa sull’ISIS nel 2014.
Un gesto che destò scalpore: un vestito giudicato “unpresidential” dai detrattori che già allora insorsero in gran numero per criticare la scelta dell’ex presidente e del suo staff. In America la carica più alta del governo è quasi obbligata ad optare per il classico completo blu, al massimo grigio scuro, arricchito magari da qualche dettaglio di rosso per richiamare quelli che sono i colori che caratterizzano la bandiera a stelle e strisce. Camicia e cravatta obbligatorie, almeno per gli uomini: celebre quella proprio rossa indossata ad ogni occasione dal Tycoon, con Trump che ama riproporre il rosso del suo partito attraverso il suo guardaroba.
Facendo un po’ più di attenzione,
ci sia accorgerebbe che il beige non è certo un simbolo ad appannaggio esclusivamente democratico. Fu Ronald Reagan, presidente Repubblicano del secolo scorso, a inaugurare la tradizione dell’abito chiaro durante alcuni eventi e conferenze stampa. In aggiunta, c’è da considerare che la Harris non era a Chicago per tenere un discorso ufficiale, bensì per un rapido saluto e per raccogliere formalmente l’invito di Biden. Nessun complotto sacrilego, dunque, e nessuna scelta epocale, dietro questa presunta “violazione” del codice stilistico da parte degli ultimi due presidenti (ufficiali e potenziali) afro-americani della storia.
Chissà che il tailleur di Kamala Harris non faccia ritorno in mondovisione il prossimo 10 settembre, quando si rumoreggia che possa avere luogo il primissimo dibattito tra i due candidati alle elezioni presidenziali di novembre. Molto improbabile, visto lo scalpore generato dal vestito di Chloé in quest’ultima occasione. Nell’attesa spasmodica dei primi confronti concreti, televisivi e poi alle urne, ecco che l’attenzione mediatica e pubblica si sposta su questi piccoli dettagli. Inezie, apparenti quisquilie, e che invece dividono l’opinione degli elettori, pronti a difendere i propri beniamini e ad attaccare gli avversari spesso senza nessun criterio logico, mossi da semplice spirito-tifoso degno del più sfegatato ultrà calcistico.