L’improvvisa morte di Liam Payne ha scosso il mondo della musica e dell’intrattenimento, costringendo gli addetti ai lavori ad una attenta riflessione sullo stato di salute (mentale) dello show business. La notizia ha turbato anche me, non certo un directioner, inducendomi inconsciamente al solito scomodo, istintivo e forse fin troppo semplicistico ragionamento: ma com’è possibile che una persona così fortunata e privilegiata decida di buttare via la propria vita in questo modo?
Soldi, fama, successo… milioni di fan adoranti che aspettano una tua foto, un autografo, oppure, più semplicemente, di poterti toccare con mano, avere così la conferma che esisti e che sei anche tu essere umano come loro. Una condizione ideale, apparentemente, che si rivela spesso tuttavia una prigione alienante, un ergastolo definitivo, inoppugnabile condanna all’infelicità perenne. Vivere la vita sotto i riflettori, tra critiche e attenzioni spasmodiche da parte dei media, sempre pronti ad affossarti ad ogni piccolo passo falso: l’inevitabile tensione nervosa derivante da questa condizione non deve essere facilmente gestibile per tutti. I burnout delle star, infatti, sono sempre più frequenti, vista la crescente esposizione su social e rotocalchi online.
Dinamiche impossibili da comprendere per i comuni mortali,
abituati alla monotonia dell’anonimato, invidiosi delle attenzioni e della ricchezza dei VIP. Ed ecco che ci si affretta a giudicarli con la pancia, più che con il cervello: quegli ingrati e privilegiati, viziati ed egoisti, hanno tutto e sprecano la vita a drogarsi, ad affondare i dispiaceri (quali dispiaceri poi, esattamente?) nell’alcool; a sfondare le camere degli alberghi, a trattare male i fan e ad aggredire qualche giornalista e quel paparazzo che stava facendo solo il suo nobilissimo lavoro. L’identikit di un bambino capriccioso e tendenzialmente narcisista, quello che emerge analizzando molte superstar, tracciato da psichiatri improvvisati, insoddisfatti e livorosi quali sono gli utenti medi del web.
Trovarsi catapultati ai vertici delle classifiche mondiali in piena adolescenza, periodo cruciale nello sviluppo emotivo e cognitivo di ognuno di noi, sacrificarlo sull’altare della fama consigliati da quel genio di Simon Cowell, non è certo una passeggiata di salute. Il destino che ha accomunato i membri degli One Direction dopo X-Factor è lo stesso di moltissimi altri teen idol: una montagna russa con vertici altissimi e mozzafiato, seguiti inevitabilmente da una caduta repentina e spaventosa, dalla quale non tutti riescono a riprendersi. Dopo la fine dell’ultima vera boyband che l’industria musicale ricordi, arrivata nel 2016, Liam aveva incontrato non poche difficoltà ad affermarsi come solista.
Una relazione fallimentare alle spalle,
quella con Cheryl Fernandez-Versini, la madre di suo figlio, rimasto orfano da parte di padre a soli sette anni; la stessa donna che pochi mesi fa aveva pubblicato un romanzo che narra di abusi familiari e violenza domestica: anche se non compare esplicitamente il suo nome, tutti pensano che il protagonista del libro fosse in realtà proprio Liam. Il rapporto professionale interrotto bruscamente con la casa discografica Universal, la dipendenza dai farmaci e dalle sostanze stupefacenti: questi gli ingredienti del cocktail letale che ha portato alla morte di Liam Payne.
Un epilogo inaspettato, per certi versi, che però non ha sorpreso i più attenti osservatori: continue risse e schiamazzi in albergo, video deliranti condivisi sui social, dichiarazioni sempre più al limite. Gli ultimi giorni di Liam non sono altro che una disperata, plateale e continua richiesta di aiuto ignorata da tutti. Ed ecco che la superstar viziata e deprecabile, seguendo alla lettera questo ipocrita canovaccio, si trasforma improvvisamente in eroe e martire a seguito della sua morte.
La star diventa improvvisamente commiserabile quando il suo cuore ha già smesso di battere. Un meccanismo malato che richiede di immolare la propria anima al cospetto del tribunale degli haters, come se questa fungesse da unica prova ammissibile a certificare e validare la profondità del proprio vuoto interiore. Ma è davvero necessario arrivare a tutto questo per riuscire ad empatizzare davvero con le star, o è forse arrivata l’ora che la macchina dello showbiz cominci a trattare anche le personalità più esposte mediaticamente, – una volta per tutte – come esseri umani?