La giornata inizia ancor prima che la sveglia suoni, nella penombra della camera da letto. Non sei ancora del tutto cosciente, ma già telefonate, email e appuntamenti si affollano nella tua mente. Poi, finalmente, ti alzi: colazione, bagno e guardaroba sono ormai degli automatismi. Tutto il corpo è in tensione, e punta a un solo obiettivo: accendere il pc, per scoprire che cosa ti aspetta. Da quel momento in avanti è un vortice di telefonate, corse contro il tempo, email da leggere, consigli, richieste di lavoro alle quali non ci sentiamo autorizzati a dire di no, stress, stress e ancora stress.
Tutto questo si ferma quando timbriamo il cartellino a fine giornata?
Assolutamente no. Grazie a internet e agli smartphone, siamo tutti sempre reperibili: la WhatsApp culture ha assassinato la discrezione, così come gli orari di lavoro. Risultato? Niente veri weekend, niente vero riposo e una quantità d’ansia sociale accumulata esorbitante. Quando ci si ricorica nel letto, esausti, a frullare in testa sono gli stessi fantasmi con cui ci si era alzati. Quelli di un lavoro tossico, che non conosce freni inibitori. Quella appena descritta, purtroppo, non è la giornata tipo di un caso isolato. Gli esperti lo definiscono burnout, o esaurimento nervoso da lavoro: una condizione psicologica instabile, gravata da ansia e stress scatenati da un ambiente lavorativo opprimente, iper esigente e – in molti casi – ingiusto. Le cause sono le più svariate, e possono dipendere tanto dal singolo lavoratore quanto dall’azienda in questione. Quel che è certo, però, è che i casi della sindrome di burnout si stanno pericolosamente moltiplicando tanto che, a livello internazionale, si sta iniziando a pensare a soluzioni normative che possano tutelare il diritto dei lavoratori al riposo; in poche parole, “staccare la spina” per preservare la loro salute mentale. Uno di questi è la filosofia del quiet quitting: di che cosa si tratta?
L’era del lavoro “matto e disperatissimo”
Che sia la classica email “urgente” dopo cena, o la chiamata ingiustificata nel weekend, nel mondo del lavoro di oggi si riscontra sempre più spesso una pericolosa tendenza alla pervasività invasiva, che non rispetta il riposo o la privacy. In parte, la responsabilità di questo atteggiamento può essere scaricata sulla cultura digitale, che – oltre a dare vita a decine di nuovi lavori sul web – ha promosso globalmente la politica della connessione continua, senza soluzioni di continuità. Ma quando questo atteggiamento si traduce in coercizione e sfruttamento dei dipendenti, tutto cambia. Stretti nella morsa di un precariato che costringe ad accontentarsi di contratti sempre più umili e risucchiati dalle sabbie mobili del sistema stage formativi eterni, i nuovi lavoratori (la maggior parte under 30) si ritrovano sempre più spesso con le spalle al muro. Esausti da anni di studi e incastrati in condizioni lavorative che non ne valorizzano le loro capacità, non possono far altro che abbassare la testa all’insegna di una “gavetta” che assume talvolta tratti tragicomici, e, quando chi è al vertice se ne approfitta, dire di no non è solo difficile: è quasi impossibile.
Al di là della legge, del proprio contratto e dei propri valori, quando si sente di non avere scelta, sottrarsi a una richiesta del proprio capo – per quanto assurda o fuori orario – è fuori discussione. Il che, ovviamente, scatena la classica situazione: “ti offro il dito e ti prendi il braccio”, scatenando un concatenarsi di situazioni tossiche potenzialmente infinite.
Come riconoscere (ed evitare) i sintomi dello “stress da email”
È proprio qui che si scatena il burnout, anche noto come esaurimento nervoso da stress da lavoro correlato. Figlio di un ambiente lavorativo tossico e di una pressione spesso ingiustificata, esso porta senza esagerazioni a uno stato di continua ansietà, debolezza e tensione. Tra i sintomi più comuni, inoltre, ci sono l’insonnia, il mancato appetito, il nervosismo e il disagio sociale causato dall’incapacità di “staccare”. Inutile dire che tutto ciò ha una ricaduta gravissima sul benessere del lavoratore, oltre che sulla sua salute mentale. Riconosciuto come vera e propria “sindrome”, il burnout compare infatti nell’International Classification of Disease (ICD), ed è definito l’ansia da email di lavoro “e-anxiety”, ovvero la necessità di controllare la posta elettronica anche fuori dagli orari di lavoro è uno dei suoi maggiori sintomi.
Il quite quitting come soluzione anti-burnout: i consigli
Per arginare i sintomi causati dallo stress da email lavorative, gli esperti suggeriscono di tenere a mente la differenza tra “urgente” e “importante”, ricordando a sé stessi quali sono le vere priorità della vita quando il ritmo diventa insostenibile. Ovviamente, però, la soluzione migliore sarebbe trovare un lavoro che non causi una simile pressione. Purtroppo non è così semplice, ma l’aumento vertiginoso di casi di burnout nel mondo sta iniziando a smuovere qualcosa a livello internazionale.
Si chiama quite quitting, e sembrerebbe essere l’antidoto allo stress da lavoro proposto da diversi Paesi anglosassoni. Correttivo e antitesi dell’etica del superlavoro, infatti, quest’ultimo si definisce come la capacità (o meglio, la volontà) di disinnescare, lasciar correre e non sovraccaricare la mente in relazione alla propria professione. In altre parole, imporsi di non votare la propria esistenza a un semplice impiego, ridimensionando la compulsione di dover essere sempre sul pezzo, attaccati al cellulare o al pc. Questo nuova etica del lavoro – che mette al primo posto salute mentale, interessi e affetti del dipendente – sta prendendo sempre più piede. Nel Regno Unito e negli USA, per esempio, esso sta diventando una vera e propria filosofia. Anche in Europa, però, inizia a muoversi qualcosa. In Belgio, per esempio, è stata approvata una vera e propria legge a tutela del “diritto di disconnessione” del lavoratore. Che si sia reso necessario arrivare a tal punto, però, è solo una parte del problema.
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