Oggi si celebra la biografia di Wangari Maathai, pioniera keniota dell’ambientalismo, che ha scolpito il suo nome nella storia in quanto prima donna africana a vincere il Premio Nobel per la Pace, nel 2004. La sua vita è un’avvicendarsi di sfide affrontate con coraggio, trionfi pagati a caro prezzo, e colpi di scena cinematografici. Nata nel 1940 a Nyeri, in Kenya, Maathai ha consacrato la sua vita alla difesa dell’ambiente e dei diritti delle donne. Cresciuta in una famiglia Kikuyu, uno dei gruppi etnici più popolosi del paese, visse coerentemente con la natura rivoluzionaria e mai arrendevole che la caratterizzava. Wangari Maathai non ha solo sfidato le aspettative del suo tempo, ma ha sovvertito i limiti geografici e culturali entro cui la sua esistenza si è svolta, affermandosi come una delle figure più influenti della storia africana.
L’avvincente vicenda personale di Wangari Maathai
è inestricabilmente connessa ai mutamenti socio-economici e politici che gran parte dell’Africa attraversò a partire dal secondo dopoguerra, periodo in cui ha iniziato a diffondersi con insistenza l’idea di eliminare il colonialismo europeo. Con il tramonto del dominio coloniale in Africa orientale, i leader kenioti elaborarono un programma per facilitare l’accesso dei loro studenti più meritevoli alle istituzioni educative occidentali. L’iniziativa, nota come “Kennedy Airlift”, fu promossa dal senatore statunitense John F. Kennedy. Wangari Maathai fu tra i prescelti per questo programma, e potè quindi studiare biologia presso il Mount St. Scholastica College. Proseguì poi con il suo percorso accademico conseguendo un master all’Università di Pittsburgh e, rientrata in Kenya, ottenne un dottorato all’Università di Nairobi, dove poco dopo iniziò a insegnare.
La sua intuizione straordinaria
la vita dei kenioti e di conseguenza, di molti altri popoli radicati in Paesi in via di sviluppo – sarebbe notevolmente migliorata qualora il progresso economico e sociale fosse andato di pari passo con la tutela dell’ambiente. Entrando a far parte del Consiglio Nazionale delle Donne del Kenya, Wangari Maathai penetrò in un campo di battaglia comune ad altre donne, e ne comprese la forza potenziale. Studiò meticolosamente la vita condotta dalle donne nei villaggi, rendendosi conto del ruolo cruciale che avrebbero potuto svolgere nella lotta alla deforestazione e alla desertificazione.
Nel 1977, Maathai fondò il Green Belt Movement, un’iniziativa che, alla stregua di un sottile filo che unifica un tessuto complesso, collegava ambiente, diritti umani e dignità delle donne in un’unica organizzazione. Quello che ai più appariva come un semplice movimento ecologico era in realtà una presa di posizione politica, un’opera di ricostruzione sociale. Le donne keniote, raccogliendo semi e piantando alberi, affermavano il loro diritto a intervenire attivamente sulla vita economica e politica del Paese, rivendicando il proprio potere a partire dalla terra. L’atto di piantumazione degli alberi si faceva simbolo di una rivendicazione femminile del diritto di esistere, crescere e prosperare, proprio come quegli alberi.
L’opposizione fu una costante nella biografia di Wangari Maathai
La sua determinazione ed il suo spirito indomito andavano contro ogni dogma strutturale della società che abitava. La sua sfida a un progetto di sviluppo governativo a Nairobi le valse l’etichetta di “pazza”, con molti che insistevano perché si conformasse allo stereotipo della “brava donna africana” obbedendo agli ordini. Il marito, durante il divorzio del 1979, fece eco a questa idea, accusandola di essere troppo volitiva per essere controllata, troppo determinata per essere donna. In tribunale, sostenne pubblicamente che lei era infedele e le sue parole convinsero la giuria. Non molto tempo dopo, Wangari denunciò il giudice per corruzione e incompetenza in un’intervista, un’azione che le procurò una condanna a sei mesi di carcere, di cui scontò solo pochi giorni. Persino il suo nome è una dichiarazione d’indipendenza: l’ex marito le impose di rinunciare al suo cognome, ma Wangari si ribellò alla pretesa aggiungendo ad esso semplicemente una “a”, diventando Maathai.
Le sue battaglie non erano solo volte contro i sistemi di potere, ma per le radici stesse dell’uguaglianza. Le sue proteste contro la costruzione di mostruosità edilizie nei parchi nazionali, i suoi interventi per la liberazione dei prigionieri politici e la sua costante opposizione al regime del presidente Daniel arap Moi l’hanno resa una figura emblematica della resistenza. Battaglie che le valsero, tra gli altri premi, anche il Premio Nobel per la Pace. Nel 2011 Maathai ha fronteggiato la sua ultima battaglia, quella contro il cancro. La sua lotta si è conclusa quando la malattia l’ha strappata al mondo per il quale si era tanto battuta, ma il suo retaggio continua a ramificarsi in ogni albero piantato, riecheggia nella voce di ogni donna. Wangari Maathai non è scomparsa: vive nella tenacia del mondo che ha voluto ardentemente, ostinatamente salvare.