“Si stava meglio quando si stava peggio”:
un banale cliché ripetuto a filastrocca, abusato e spesso privo di significato concreto, ma che nel cinema trova sempre diverse sorprendenti applicazioni. Una di queste riguarda la percentuale di registe donne, oggi addirittura dimezzata rispetto al ventennio muto dei primi del ‘900. Un periodo illuminato che non si è mai più rivisto, in cui gli studi di Hollywood erano popolati da ragazze talentuose che occupavano professionalmente il proprio ruolo sia davanti che dietro la cinepresa. Tra queste, Dorothy Arzner è stata sicuramente la più importante e prolifica.
Pioniera di un settore ancora tristemente e vastamente inesplorato, oltre un secolo dopo, dalle maestranze di sesso femminile, Dorothy ha saputo imporsi in questa industria così ermetica riuscendo a sopravvivere al delicato passaggio da muto a sonoro, avvenuto mentre la stessa si trovava nel culmine della carriera. Eppure, la sua eredità rischiava di finire nel dimenticatoio, non fosse per gli studi di genere condotti nel settore a partire dagli anni ’70, di cui è inevitabilmente una delle figure cardine certamente più analizzate. Emblema di un femminismo concreto e pratico, come si conviene al ruolo che lei stessa ha ricoperto per oltre 15 anni: quello della regista.
Nata a San Francisco nel 1897,
la biografia di Dorothy Arzner comincia davvero quando questa si trasferisce a Los Angeles, dove il padre aveva aperto un ristorante nei pressi degli studios più famosi del mondo. Una fortunata casualità che le consente di ritrovarsi ogni giorno a stretto contatto con la fabbrica del cinema, circostanza che fa nascere in lei il desiderio di trovare un impiego più stimolante rispetto a quelli che gli avrebbero garantito gli studi in medicina, a maggior ragione dopo gli orrori della prima guerra mondiale, trascorsa sul fronte francese come infermiera.
Con sorprendente spirito moderno, Dorothy decide dunque di abbandonare l’università e affrontare un colloquio per ottenere un posto da dattilografa nell’allora Famous Players-Lasky Corporation, oggi Paramount Pictures. Il suo acume e la sua intraprendenza la porta non solo a ottenere l’impiego, ma anche a scalare svariate posizioni all’interno della serrata gerarchia cinematografica, proponendosi dapprima come montatrice per una società ausiliaria, ed infine ad accettare la sua prima proposta per scrivere e dirigere un film tutto suo, Fashion for women (1927), arrivata dopo anni di apprendistato passati a stretto contatto col regista James Cruze.
Non una “quota rosa”
ma bensì una regista affermata e di successo, così affidabile da ritrovarsi al timone del primo sonoro girato dallo studio: The Wild Party con Clara Bow (1929). Durante le riprese di questa celebre pellicola, si narra che fu lei stessa a proporre di appendere i microfoni a un’asta e tenerli fuori dall’inquadratura, piuttosto che lasciarli sparsi per la scena. Il cosiddetto boom mic, la pratica che è ancora oggi la norma per catturare il suono nella scena. Come non citare anche La Falena D’Argento (1933), primo ruolo di una giovanissima Katharine Hepburn: durante le riprese di questi capolavori Dorothy Arzner non poteva fare a meno dei suoi più stretti collaboratori, a cui era molto legata. Tra questi vi era spesso Marion Morgan, coreografa e compagna di vita per oltre 40 anni.
L’opera di Arzner continua ad ammaliare e affascinare i critici: analizzare la sua carriera ci aiuta a comprendere non solo la sua traiettoria professionale, ma anche gli atteggiamenti dell’industria del cinema nei confronti del personale creativo LGBTQ+ che lavorava a Hollywood a cavallo degli anni ’20 e ’40. Tematiche moderne e sempre più delicate, che si intrecciano inevitabilmente con la vita di questa figura troppo spesso dimenticata. Gli ultimi anni Dorothy li ha trascorsi insegnando tecniche cinematografiche all’UCLA. Tra i suoi allievi più celebri, Francis Ford Coppola la ricorda sempre con grande affetto, come una donna “austera” ma dal “cuore grande come il mondo“, icona forse inconsapevole di un femminismo ante-litteram, eppure più attuale che mai.