Parlare di “Gender Studies” o studi di genere, nell’Italia contemporanea, non è sempre una cosa banale o semplice da fare. In una società ancora legata alle dinamiche patriarcali, al binarismo di genere, all’ostilità nei confronti della comunità LGBTQA+, necessitiamo di un dialogo aperto, informato e approfondito sui temi e sulle battaglie che nel passato hanno ridefinito ruoli e diritti. E in questo, il femminismo e gli studi di genere, hanno contribuito in maniera significativa. Dalle università, oggi abbiamo bisogno di questo: scopriamo perchè.
La discussione sui temi del genere
“Il genere è un’imitazione… acquisire un genere implica l’imitazione di un ideale a cui nessuno appartiene realmente”,
scriveva la filosofa contemporanea Judith Butler. Quest’ultima continua a dedicare il suo lavoro, i suoi studi e le sue riflessioni al concetto di costruzione sociale del genere, analizzando e approfondendo temi riguardanti il femminismo, la politica, l’attivismo, la sessualità e la teoria Queer. Eppure, mentre leggiamo le parole di Judith Butler e cerchiamo di focalizzare il concetto “ideale” di genere, il nostro paese continua spesso a ignorare l’importanza degli studi sul genere e sulle donne.
È un dato di fatto che il contributo delle donne occupi solo una piccola parte dei libri di storia e letteratura. Tuttavia, in confronto al panorama internazionale, l’Italia si trova in ritardo nell’integrare nei suoi programmi accademici gli studi di genere e femministi. Questi ultimi, come ben sappiamo, abbracciano una vasta gamma di riflessioni interdisciplinari che spaziano dalla politica alla cultura, dall’economia ad altre aree di interesse.
La nascita degli studi di genere
Non studiare e non dare spazio ai cosiddetti “Gender Studies” significa non riconoscere le lotte che le donne e le femministe del nostro passato hanno portato avanti. Significa ignorare le radici profonde che alimentano il patriarcato, il sessismo, il gender pay gap e la violenza di genere che contraddistinguono la nostra società moderna; significa, soprattutto, dimenticare il ruolo politico e attivo del femminismo. Come scriveva Carla Lonzi:
“Il femminismo non è solo rabbia, denuncia, ma anche autocoscienza e liberazione, è tutto l’arco, tutte le fasi di un processo: il risultato è sempre la scoperta di sé, ma l’essere in un processo invece che in un altro modifica la civiltà”.
Negli anni ’70, il ruolo della donna era ancora saldamente legato alla narrazione tradizionale che la vedeva come madre, moglie e pilastro del focolare domestico. Tuttavia, la fine degli anni ’60 aveva innescato un fermento culturale e politico di grande portata, che avrebbe dato origine alla “seconda ondata di femminismo“. Il movimento nacque dalla riflessione sull’oppressione, ispirata dagli eventi post-coloniali e dalla guerra in Vietnam che evidenziavano la marginalizzazione delle donne in un mondo dominato, raccontato e disegnato dagli uomini.
Studi di genere e intersezionalità
Le rivoluzioni studentesche e la lotta per i diritti civili in America rappresentano il punto di partenza per la nascita dei “Gender Studies”. Questi ultimi si sono sviluppati dall’intersezione tra antropologia, sociologia e filosofia, partendo dalle istanze femministe e ampliando il loro focus oltre la sola condizione femminile. L’obiettivo era quello di esplorare e ridefinire le nozioni tradizionali di genere, reagendo al binarismo che imponeva norme sociali basate sul sesso biologico. Così, gli studi di genere hanno posto le basi per una critica radicale delle strutture di potere e delle disuguaglianze di genere, affrontando temi come la sessualità, la rappresentazione mediatica, la violenza di genere, le dinamiche familiari e l’intersezione del genere con altre categorie sociali come razza, classe sociale e sessualità.
La situazione in Italia
Ma come sono arrivati i Gender Studies in Italia? In Italia, a livello accademico, gli studi di genere sono entrati nelle università “sotto mentite spoglie“. Per introdurre questi temi nelle aule dei giovani e delle giovani dell’epoca, i contenuti dei Gender Studies venivano esplorati di nascosto in diversi corsi riconosciuti formalmente, poiché parlare apertamente di femminismo e di questioni di genere non era sempre possibile.
Questo per via dell’atteggiamento conservatore predominante nell’istruzione italiana del tempo e, prima del 1999, dell’impossibilità di aggiungere ufficialmente nuovi corsi accademici nelle università italiane. Inoltre, nel settore dell’istruzione c’era ancora un forte divario di genere, con le donne in posizioni marginali o di poco rilievo e sottorappresentate nell’intero sistema. Solo con la riforma degli ordinamenti universitari del 1999, che permise l’introduzione di nuovi corsi di studio, le cose iniziarono a migliorare per le donne, il femminismo e per gli stessi Gender Studies.
Gli studi di genere nelle università contemporanee
Se dalla fine degli anni ’90 si iniziò a parlare ufficialmente di studi di genere nelle università italiane, come si sono sviluppati questi studi negli ultimi 20 anni? L’Italia, come già detto, è molto in ritardo rispetto al resto d’Europa e del mondo. Alcuni dei principali atenei europei si sono distinti per aver approfondito precocemente queste materie fin dalla fine del Novecento. Nel Regno Unito, ad esempio, università come Sussex, Lincoln, SOAS di Londra, Stirling e St. Andrews hanno sviluppato programmi didattici all’avanguardia, organizzando conferenze, seminari e master in ambito Gender Studies. Sebbene in misura minore, iniziano a emergere anche atenei in Spagna, Finlandia, Lituania e Repubblica Ceca, sempre più attenti ad adeguarsi ai più recenti sviluppi.
In Italia, invece, solo nel 2022 è stato attivato il primo corso di laurea magistrale specifico presso l’Università La Sapienza di Roma, mentre sono ben 63 le realtà universitarie che a vario titolo si occupano di tematiche femministe, di genere, intersex, transfemministe e relative alla sessualità. Quindi, pur essendoci ancora margini di crescita, il quadro complessivo mostra come l’accademia italiana stia gradualmente recependo e dando spazio a questi ambiti di studio, seppure con alcune differenze a seconda dell’area disciplinare di riferimento.