Stranieri ovunque
– Foreigners Everywhere: la scritta al neon del collettivo Claire Fontaine, all’ingresso del Padiglione Centrale e dell’Arsenale, indica il tema della Biennale Arte 2024 a Venezia dal 20 Aprile fino al 24 novembre. Una sessantesima edizione, spiega il brasiliano Adriano Pedrosa, “primo curatore dichiaratamente queer” nella storia della kermesse veneziana, che vuol essere celebrazione dello straniero, dell’outsider, dell’indigeno; una dichiarazione d’intenti che aprirà prospettive inesplorate. Sono 331 gli artisti invitati, la maggior parte dei quali partecipa per la prima volta. Questa edizione è l’ultima presieduta da Roberto Cicutto; dallo scorso ottobre, infatti, Pietrangelo Buttafuoco è il nuovo presidente della Fondazione La Biennale di Venezia.
Cosa significa “Stranieri ovunque”
È lo stesso Pedrosa a spiegarlo, partendo dalla constatazione di un mondo sempre più attraversato da guerre, crisi, disparità legate ai concetti di identità, nazionalità, razza, genere, libertà e ricchezza: “Ovunque si vada e ovunque ci si trovi – afferma il curatore – si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo dappertutto. In secondo luogo, a prescindere dalla propria ubicazione, nel profondo si è sempre veramente stranieri”. Seguendo questo leitmotiv, che conduce a scoprire la ricchezza di un patrimonio talvolta inesplorato, la Mostra ai Giardini e alle Corderie, articolata in un Nucleo Contemporaneo e in un Nucleo Storico, propone incontri con artisti finora estranei al sistema dell’arte e altri ormai storicizzati, ma presentati attraverso nuove riletture. Ed è un itinerario denso di scoperte: la prima sorpresa è la facciata del Padiglione centrale dei Giardini, mai così variopinta e vivace grazie al monumentale murale del collettivo brasiliano MAHKU (Movimentos dos Artistas Huni Kuin).
All’interno del Padiglione, ad accogliere i visitatori
è la grande installazione dell’artista turca naturalizzata francese Nil Yalter intitolata Exile is a hard Job, C’est un dur métier que l’exil (l’esilio è un lavoro duro). La frase, da un verso del poeta turco Nâzim Hikmet, sovrasta le pareti letteralmente tappezzate da fotografie e video che raccontano di famiglie di immigrati intervistate dal 1974 a Parigi e in varie città d’Europa, a Bombay e a Istanbul. Al centro della sala un’altra sua installazione, Topak Ev (La Casa Rotonda), che risale agli anni 70: una sorta di capanna in alluminio ricoperta di feltro e pelli che richiama le tende delle tribù nomadi Bektik dell’Anatolia, dove l’artista venne ospitata.
Nil Yalter premiata con il Leone d’Oro alla Carriera
Leone d’Oro anche all’artista Anna Maria Maiolino. Tra i numerosi outsider, invece, le opere di Joseca Mokahesi, appartenente al popolo Yanomani dell’Amazzonia brasiliana: con disegni a inchiostro su carta racconta storie e rituali sciamanici; le narrazioni di Sénèque Obin, appartenente a una famiglia di artisti di Haiti, si riferiscono invece a mercati di strada, al carnevale e al sincretismo spirituale. Il percorso procede tra installazioni di canne di bambù colorate e sospese a mezz’aria da cavi trasparenti e opere che affondano le radici nelle tradizioni popolari del Brasile, dell’America latina e dell’Africa.
Proposto un interessante dialogo tra due artiste assai diverse tra loro
Da un lato l’americana Liz Collins, stilista di moda e autrice di fiber art, presenta due tessiture di grandi dimensioni: grandi montagne color ghiaccio da cui escono arcobaleni monumentali che stanno a simboleggiare l’energia queer, senza limiti né codificazioni di genere e sessuali. Accanto, le opere dai toni surrealisti dell’artista svizzera Aloïse (Aloïse Corbaz) che trascorse la maggior parte della sua vita in un ospedale psichiatrico lavorando con gli scarsi materiali a disposizione: dentifricio, colori a matita acquarellati, pastelli a cera e a olio, pigmenti di gerani essiccati. Scoperta da Jean Dubuffet nel secolo scorso, è oggi annoverata tra le rappresentanti dell’Art Brut.
L’itinerario prosegue alle Corderie dell’Arsenale, e all’interno del Nucleo Contemporaneo troviamo uno dei lavori più significativi che vede protagonista il progetto Disobedience Archive curato dall’italiano Marco Scotini. Un’opera complessa e articolata che, attraverso 39 video realizzati da artisti e collettivi tra il 1975 e il 2023, racconta mezzo secolo di disobbedienza, fra “Attivismo della diaspora” e “Disobbedienza di genere”. Infine, tra le 43 partecipazioni nazionali ospitate ai Giardini e in altre sedi veneziane, spicca il Padiglione statunitense di Jeffrey Gibson, artista queer di origini Cherokee e Choctaw, il primo indigeno americano a rappresentare gli Stati Uniti alla Biennale di Venezia: le sue opere coloratissime che mescolano tecniche diverse, sculture, poesie visive e video rappresentano una vera celebrazione di vitalità e appagano lo sguardo.