Naomi Campbell come una Venere di Botticelli sullo sfondo delle miniere d’oro dell’Africa, Kim Kardashian è Maria Maddalena che piange un ruscello scintillante di lacrime, Kanye West appare come Cristo torturato dalla corona di spine: sono solo alcuni degli “atti divini” a firma di David LaChapelle, fotografo ma anche regista di video musicali, che strizza l’occhio alla cultura pop celebrandola con visione surrealista, come racconta in questa intervista, a ventiquattrore dalla mostra romana “Stations of the Cross” alla Galleria Deodato Arte di via Giulia (fino al prossimo 25 novembre).
Chi è David LaChapelle: vita e carriera tra Los Angeles e le Hawaii
Attivo nei campi della moda, della pubblicità e della fotografia d’arte, noto per il suo stile di stampo surreale e spesso caricaturale all’età di 15 anni, LaChapelle lascia la casa di famiglia in Connecticut per trasferirsi a Manhattan. Erano gli anni Ottanta, quando inizia la sua carriera di artista nell’East Village, con i suoi primi lavori per una rivista diretta da Andy Warhol. Influenzato anche dall’incertezza esistenziale e della dilagante epidemia di AIDS, fotografa i suoi amici malati facendogli indossare ali da angelo con tanto di aureola di luce sacra.
Da qui in poi, l’iconografia religiosa caratterizzerà marcatamente i suoi scatti: nella serie di ritratti intitolata Jesus Is My Homeboy, trapianta Gesù in ambientazioni quotidiane, come sul marciapiede di una strada poco illuminata tra una prostituta e un agente di polizia, come a voler suggerire che il salvatore cristiano è tra noi, non è un’entità trascendentale. Arrivano i lavori per la moda e la fotografia pubblicitaria, fino a quando attorno alla metà degli anni Duemila, LaChapelle prende la decisione di lasciare New York per una fattoria isolata a Maui, nelle Hawaii, le cui divinità torneranno ad influenzare il suo immaginario religioso.
A Roma la mostra di LaChapelle: “Stations of the Cross”
Solo dieci giorni fa, nel corso della Biennale di Firenze, l’artista ha ricevuto il premio Lorenzo il Magnifico alla carriera, presentando in anteprima mondiale il nuovo ciclo di lavori “Station of the Cross”che domani arriverà a Roma. Quindici scene della Via Crucis disposte lungo un percorso che simboleggia il cammino di Cristo verso la Crocifissione, per cui l’artista si è ispirato tanto all’epoca medievale e a quella postmoderna.
Ha colorato la tradizionale narrazione religiosa con il suo stile basato su immaginazione, sperimentazione e creatività. Una prospettiva visionaria, la sua, che trasmette profondi messaggi sociali, regalando anche qualche effetto speciale, a partire dal rapper italiano Tedua, all’anagrafe Mario Molinari, che viene ritratto nelle vesti di Cristo. L’intervista.
Come nasce la collaborazione con l’artista Tedua, da lei ritratto nelle vesti di Cristo?
Tedua ed io stavamo progettando di collaborare all’artwork per il suo album ( il fotografo ha firmato le cover degli album “Purgatorio” e “Inferno”, ndr) e quando l’ho conosciuto durante una videochiamata, mi sono reso conto che era perfetto per il mio progetto artistico Stations of the Cross. I suoi occhi e il suo volto poetico hanno la sensibilità perfetta per raffigurare Gesù Cristo. Ho cercato per sei lunghi mesi la persona giusta per questa serie e lui era semplicemente perfetto.
Cosa l’ha colpita di Tedua, perchè proprio lui?
Ho scelto Tedua per interpretare la figura di Cristo basandomi esclusivamente sul suo aspetto fisico: non aveva tatuaggi in viso e sembrava vagamente avere lineamenti medio orientali, poteva benissimo venire da Nazareth. Il suo impegno è stato davvero intenso, al punto tale che per immedesimarsi nella parte, ha digiunato anche molti giorni prima del servizio fotografico, in modo che il suo corpo somigliasse a Cristo prima della crocifissione. Tedua è una persona molto speciale. I suoi fan lo hanno soprannominato “il poeta”, sarà per il suo sguardo sincero, i suoi capelli lunghi, ma lui lo è davvero.
Quali opere vedremo nella nuova mostra?
L’esposizione accompagna la nuova serie Stations of the Cross, con altri lavori realizzati dal 2008 al 2011 dal titolo “Earth Laughs In Flowers”, ispirati alle nature morte e alle vanitas dei vecchi maestri. E’ come se queste due serie si parlassero: da una parte c’è il viaggio che Cristo fece fino alla crocifissione; dall’altra, scatti che sono specchio delle nostre vite, delle nostre paure, speranze e desideri, gioie e segreti. Uno dei miei obiettivi in questa mostra, era quello di trasmettere attraverso le fotografie la sofferenza e l’emotività della rappresentazione della via Crucis.
Con le sue opere, ha preso elementi dell’iconografia cristiana tradizionale e li ha trasformati completamente: qual è il suo rapporto con la religione?
Sin da piccolo sono stato attratto dalla religione, ricordo di aver sempre cercato di sentire la presenza di Dio. I miei quadri riflettono la gioia che provo in questa ricerca. Quando creo immagini, accadono così tante cose che posso solo pensare che siano dei miracoli. Come se Dio lavorasse attraverso di me nella creazione. Ho la sensazione di connettermi con Dio anche quando mi immergo nella natura, mentre cammino nel bosco, è una situazione che mi dà calma.
Lei si rifugia mai nella preghiera?
Sì, prego sempre. A volte da solo, a volte con gli amici. Prego per la salute delle persone, per gratitudine e ringraziamento, per avere saggezza e più autocontrollo. Prego di percorrere il cammino che Dio vuole per me, e di essere la persona che Lui vuole che io sia. Oggi il mondo sta andando a pezzi, il nostro compito è cercare di rimetterlo insieme, liberandoci dal materialismo e dall’ansia, lottando con la fede attraverso la creazione, sempre.
Intende quindi le sue opere come un’iniezione di positività verso il futuro?
Voglio realizzare opere che portino luce nel mondo, un po’ di evasione e anche di umorismo, aggiungere bellezza al mondo, non altra confusione. Voglio dare chiarezza e colori, una narrazione che tocchi le persone. L’opera non è finita fino a quando lo spettatore non si connette con essa e comprende la storia che intendevo raccontare.
L’arte riuscirà nel miracolo di salvare il mondo?
Non credo nei miracoli e non penso che l’arte salverà il destino del mondo. L’arte è sempre testimonianza del tempo in cui si vive. Io uso l’arte forse più come un balsamo, una specie di antidoto al mondo decaduto in cui ora viviamo. Viviamo in questo mondo precario, abbiamo le guerre e il clima che cambia. L’arte può illuminare la mente delle persone e indicargli certe verità, aiutandole a sviluppare il sentimento di empatia verso gli altri, i diversi da noi, le altre culture. Alla fine solo le nostre azioni salveranno l’umanità dall’ autodistruzione.
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