Un biglietto aereo, un timbro sul passaporto, la voglia di dare un senso a lunghi anni di studio matto e disperatissimo passati nelle aule delle migliori Università italiane. Sono sempre più i laureati che scelgono di lasciare la madre patria per cercarne un’altra, più amorevole e riconoscente verso i suoi figli. All’orizzonte ci sono mete sempre più lontane: Berlino, Londra e Parigi, ma anche Svezia, Norvegia, persino Stati Uniti, Australia ed Estremo Oriente. La fuga di cervelli che l’Italia sta attraversando negli ultimi mesi sta assumendo i tratti di un vero e proprio esodo. Ma che cosa spinge i laureati italiani ad abbandonare parenti e amici per cercare lavoro all’estero? Nel mirino dei cosiddetti “expat” – spatriati – ci sono solo benefit e buste paga migliori, o si tratta di un fenomeno più complesso?
L’esodo dei neolaureati: i numeri di una crisi tutta italiana
Non serve essere statisti o esperti in demografia per rendersi conto che la fuga di cervelli che sta interessando il nostro Paese è ben più di una coincidenza. I numeri rilasciati dagli organi ufficiali, infatti, dipingono un quadro allarmante. La percentuale di giovani in possesso di una laurea di primo o di secondo livello che hanno scelto di lasciare l’Italia è salito di un solido 41,8% rispetto al 2013. Secondo l’Istat, nello stesso periodo ben 980.000 ex studenti hanno lasciato il Paese per andare a rimpolpare l’elenco dell’Aire, l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero, che è salito a ben 5.652.080 di iscritti. Poco più di un decennio, che ha visto quasi la metà delle più brillanti giovani menti italiane abbandonare la nave e mettersi al servizio di altri Paesi. Un’emorragia di talento e competenza che l’Italia – specie nel periodo storico che stiamo vivendo – non può davvero permettersi.
Nemmeno il Covid è riuscito a frenare la fuga di cervelli. Anzi, per chi pensava di partire, la permanenza forzata entro i confini nazionali è stata un’ulteriore stimolo a levare le tende non appena possibile. Per chi, invece, ha vissuto il lockdown da espatriato, l’emergenza sanitaria non è stata di certo un buon motivo per tornare. Le stime più recenti registrano un aumento dell’82% degli “expat” dal 2006 al 2021. E, per zittire sul nascere le destre, la Lombardia è in cima alla lista delle regioni da cui si parte di più.
L’era degli expat
Così, mentre il resto dell’Europa punta al futuro, l’Italia sembra aver messo la retromarcia. Un governo anacronistico, un mercato del lavoro basato sullo sfruttamento e un ventaglio di prospettive che si restringe a vista d’occhio: è questo il panorama che si para davanti a un giovane universitario dopo la laurea. Dopo anni passati sui libri, nel migliore dei casi sarà condannato ad anni di tirocini sottopagati, precariato e una remunerazione spesso inferiore a chi ha scelto di fermarsi a più bassi livelli di istruzione. Stando ai dati Ocse, infatti, la stragrande maggioranza dei laureati italiani tra 25-34 anni guadagnano appena il 10% in più rispetto ai semplici diplomati. Eterno stagista, perennemente in cerca di un contratto adeguato, l’ex studente italiano – futuro expat – non è agevolato dai suoi studi. Anzi, talvolta ne è compromesso. Al che, la domanda sorge spontanea: vale davvero la pena laurearsi? Evidentemente – visti gli indici di iscrizione alle Università ancora in crescita in Italia – sì ma per mettere poi le proprie competenze al servizio di un altro Paese.
Le ragioni della fuga
Chi facendo il pendolare dall’Italia, chi sfruttando smart working e piattaforme telematiche, sono sempre più numerosi i giovani che scelgono di realizzare i propri sogni fuori dai confini nazionali. Le ragioni di una simile decisione, tuttavia, vanno ben oltre la natura strettamente economica. Certo, salari adeguati, benefit e la giusta sicurezza finanziaria sono fattori di primaria importanza. Ma quello che i laureati italiani cercano maggiormente all’estero è un sistema del lavoro più giusto e tutelato, una migliore qualità di vita, inclusione, efficienza. Tutti valori che – in Italia – sono sempre più rari.
Welfare, meritocrazia, parità di genere,
politiche a tutela della maternità e della paternità, servizi e diritti insindacabili. Sono questi i veri poli di attrazione che ogni anno spingono centinaia di giovani menti fuori dall’alveare. Ma perdere un numero così elevato di api operaie – tra le più preparate in circolazione, peraltro – è un danno che l’Italia fa sempre più fatica ad affrontare. Non solo in termini umani e culturali, ma anche e soprattutto economici. Gli esperti, infatti, stimano una perdita potenzialmente miliardaria per ogni laureato espatriato all’estero, con ricadute gravissime sullo sviluppo del Paese. Qual è, dunque, la soluzione? Non certo sperare che un buon numero di neolaureati rinunci alla propria dignità per contribuire a sanare il sistema che continua a respingerli. Il cambiamento – se mai avverrà – dovrà arrivare dall’interno: dalle istituzioni, dai datori di lavoro, dallo Stato. Da tutti coloro che decideranno di non nascondersi più dietro a miopi frasi di circostanza come: «I giovani di oggi non hanno più voglia di lavorare». Bisogna partire proprio dalla lista di ragioni che hanno alimentato la fuga di cervelli, e trasformarle in un manuale per il futuro.