Neon, estetica, passione, amore, violenza. C’è tutta la poetica di Nicholas Winding Refn in “Copenhagen Cowboy“, la seconda serie tv ideata dal regista danese prodotta dal colosso Netflix e presentata fuori concorso in occasione del penultimo giorno della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia 79, ricevendo applausi scroscianti e un riscontro rilevante da parte della critica.
Storie di criminalità in una Copenhagen irriconoscibile
Al contrario del precedente show televisivo “To old to die young”, ambientato perlopiù nel New Mexico (Stati Uniti), in questa produzione il cineasta visionario ha deciso di tornare direttamente alle sue origini, ambientando la storia nella sua città natale, Copenhagen, riprendendola da una prospettiva vista raramente sia sul grande che sul piccolo schermo.
Curiosa la trama
Nel corso dei sei episodi (al Lido di Venezia sono stati proiettati primi due) assisteremo alle vicende di Miu (interpretata dalla semi sconosciuta Angela Bundalovic), una ragazza “portafortuna” la cui sola presenza assicura stati di benessere e positività a chi non li possiede. Per via di questo potere magico fin da piccola viene mercificata dalla madre, “vendendo” la sua buona sorte al miglior offerente. A un certo punto però si ritroverà al cospetto di una donna ormai verso l’anzianità appartenente a una gang malavitosa albanese. Quest’ultima la utilizzerà per realizzare il suo desiderio più grande: avere un bambino, motivo che costringerà Miu ad assistere anche al concepimento tra la donna e un partner dalle sembianze oltremodo particolari. Da quel momento la sua vita cambierà per sempre, ritrovandosi coinvolta in giri malavitosi tra guerre tra cosche, armi e carnalità.
Il regista dunque, dopo l’ultimo lungometraggio “The neon demon” (2016), torna a scegliere una protagonista femminile, probabilmente però più vicina al personaggio di Ryan Gosling in “Drive” e “Solo Dio perdona” piuttosto che a quello di Elle Fanning, in quel caso da un punto di vista scenico più passiva (tutti desideravano la sua bellezza e la sua giovinezza) che attiva.
Attori non protagonisti al servizio del genio danese
Una particolarità della serie riguarda la scelta di Refn di voler inserire nel cast attori non professionisti oppure alle primissime armi. Una necessità dettata dal voler sfruttare quanto più possibile la dinamicità dei loro corpi e le loro relative reazioni al fine di fornire una struttura molto più libera, fluida e meno incanalata nei soliti stilemi chiusi. Anche il ritmo, a giudicare dai primi due episodi, è altalenante: si passa da tempi forsennati, conditi di azione violenta ad altri più rilassati, costellati da riprese lente e super estetiche. La sensazione è che all’interno di “Copenhagen Cowboy” ci sia davvero un sunto di tutto quello che Refn ha creato nella sua filmografia. Un fattore confermato dallo stesso regista in fase di presentazione:
«Copenhagen Cowboy – ha spiegato l’artista – nasce dal mio fuoco rivoluzionario e cerca allo stesso tempo di sedurre e intrattenere i sensi. È progettato per stimolare la mente, gli occhi, la lingua, il cuore e l’anima: tensioni ed emozioni si accendono in un macabro tour de force che si manifesta in Miu, una nuova incarnazione dei miei alter ego, fondamentali nel mio lavoro passato, presente e futuro: Bronson (Tom Hardy) in Bronson, One Eye (Mads Mikkelsen) in Valhalla Rising, Driver (Ryan Gosling) in Drive, il Tenente (Vithaya Pansringarm) in Only God Forgives, Jesse (Elle Fanning) in The Neon Demon e i numerosi personaggi dello spettacolo Too Old to Die Young».
Un riferimento alla moda sempre presente
Anche in questo caso, così come in alcune opere precedenti, non mancano nello show del danese numerosi riferimenti al mondo della moda, a partire dal mood e dall’abbigliamento delle attrici – ritratte appunto come se fossero delle modelle di passerella tanto sono curate nell’estetica – ad altri particolari più interessanti. In questo caso, per ammissione stessa di Refn, il nome della protagonista Miu proviene proprio dalla celeberrima linea di Prada. Ogni inquadratura poi, seguendo anche la lezione del Maestro Dario Argento, è talmente impattante da poter essere scambiata apparentemente per una campagna pubblicitaria glamour, una campagna che però cela praticamente sempre dolore, sofferenza, trasformazione, sangue.
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