Il mercato – e i nuovi trend – della moda in Italia sta tornando ai livelli pre-Covid ma oggi le sfide che il Made in Italy deve affrontare sono molteplici ed in continua evoluzione. Una recente ricerca di Rome Business School evidenzia che la chiusura dei negozi fisici durante il 2020 e la lenta ripresa post lockdown hanno indotto anche i consumatori italiani più refrattari ad affacciarsi all’e-commerce, ma sugli scaffali virtuali hanno trovato più di quanto si attendessero.
Abbigliamento e gioielli di seconda mano o in affitto, accessori etici e tessuti ecologici,
nuovi materiali organici e derivati dalla plastica riciclata stanno rivoluzionando i costumi ed il comportamento dei consumatori italiani. Perdono, invece, posizione nell’universo dei desideri dei medesimi sia pelli che pellicce, il cui mercato poco etico viene via via abbandonato anche dai grandi marchi del lusso, in virtù di una ricerca sempre più attenta di capi cruelty-free e vegani.
Questi sembrano incontrare maggiormente la crescente domanda delle ultime generazioni, desiderose di scegliere capi realmente eco-friendly e di dare il proprio contributo concreto alla salvaguardia dell’ambiente. In questo panorama, la nuova domanda di consumo è sempre più attenta a tematiche sociali ed ecologiche e si sta sviluppando sempre più il “brand activism”, prerogativa quanto mai indispensabile oggi per un sicuro e attento successo del mercato. Risposte alla domanda del consumatore attento riguardo i cosiddetti “Malefici 7” – cambiamento climatico, lotta alle disuguaglianze, estremismo, migrazione, istruzione, corruzione, attenzione riguardo un aumento demografico soprattutto nei paesi meno forti economicamente – sono quanto di più importante il brand activism contemporaneo internazionale deve cercare di dare.
Se dal punto di vista delle generazioni Millenials e Y
questi fattori per quanto importanti non superano totalmente la scelta nei confronti di un capo esteticamente valido, tali tematiche sembrano essere divenute la cartina tornasole per la scelta della Generazione Z che, ad oggi, detiene la maggiore spending review sia nell’online, sia nell’offline e per la quale l’estetica gender fluid non è più una nota su cui porsi domande esistenziali. Ne è stata la riprova il palco nazionale del Festival della Canzone Italiana di Sanremo che, per la prima volta nella sua lunga storia, ha visto esibizioni passare quasi in secondo piano rispetto ad una proposta di styling che ben hanno saputo decodificare la voglia di distinguersi e di abbracciare una nuova estetica che parli di diversità, di body positivity e di fluidità capaci finalmente di creare dibattiti costruttivi che possano portare all’abbattimento di qualsivoglia pregiudizio.
Parallelamente, vediamo come la moda del “fashion renting”
già famosa in America ha permesso a start-up italiane di riscuotere molto successo proprio in tempi di piena pandemia, unendo sinergie e competenze in più settori: dall’e-commerce, al marketing digitale; dal trasposto alla pulizia e consegna dei capi. “L’ho preso in affitto” è divenuta un’espressione valida di condivisione social e di apprezzamento positivo in tutti i contesti della vita contemporanea, un vero claim, insomma, che sottolinea le proprie scelte di tendenze che vedono l’etica sempre e finalmente al primo posto. Un esempio di fashion renting di successo è “Dress You Can” che propone online abiti di alta moda, accessori e scarpe con un limite di quattro giorni di noleggio e un servizio di pro-noleggio a soltanto 20 euro.
In questa ottica vediamo marchi noti come Max Mara e Versace
abbiano accettato la presenza all’interno del portale, apprezzandone per esempio la collaborazione con la società milanese “TakeMyThing”, un servizio di pony sharing eco-friendy ideato per ridurre le emissioni di Co2. America, Italia e Inghilterra sono le sedi dove il fashion renting sta acquisendo maggiori fette di mercato. Le caratteristiche che accomunano i numerosi business in questo ambito riguardano specialmente i servizi di sanificazione, tintoria ed assicurazione, che sono sempre inclusi nell’abbonamento e, che vengono abbinati nella proposta digitale a consigli di esperti stylist che garantiscono la scelta estetica e di branding.
Non stupisce affatto il perché il successo del fashion renting in Italia sia arrivato proprio in piena pandemia
se valutiamo come l’impossibilità di uscire dalle proprie case abbia accresciuto la voglia di condivisione digitale attraverso i social network. Dato, questo, che ha spinto il consumatore medio ad una necessità di cambio abito maggiore accompagnata però dal timore di una crisi economica derivata che ha fatto affacciare lo stesso verso nuovi orizzonti di scelte legate al mondo della moda.
Resta da chiedersi – e sono in molti a farlo – quanto la soluzione del fashion renting risponda davvero a politiche ecosostenibili se consideriamo trasporto, spedizione e resi. Non si ha nessun dubbio nel rispondere che di strada da percorrere ce ne sia ancora moltissima da fare, soprattutto in previsione del raggiungimento degli obiettivi previsti dall’Agenda 2030. Intanto, se valutiamo come la contrazione economica sia la più alta vissuta dal 1997 e c’è una diminuzione di acquisto proprio nelle città del Nord Italia con maggiore presenza di shopping off-line, la prospettiva etica che ci si pone davanti porta a determinare pensieri positivi rispetto alla direzione che il comparto del fashion si sta già dirigendo e che si ha certezza troverà nuovamente riscontro nella scelta dei consumatori di oggi e di domani.
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