Addio Peter Beard, l’ultimo dandy della fotografia di viaggio e natura, raccontando la savana così come le star dello spettacolo. Un personaggio tra Hemingway e “La mia Africa” della sua grande amica Karen Blixen. Beard con le sue foto era un’immagine, anzi una vera icona dell’Africa, del paesaggio africano.

Addio a Peter Beard morto dove aveva  sempre vissuto, ovvero, in mezzo alla natura…

Il grande fotografo americano, 82 anni, è stato trovato morto domenica nei boschi di Montauk, Long Island, NY. Di lui non si avevano più tracce dal 31 marzo.

Originario di New York, ha passato la sua vita di dandy alternando sublimi reportage sulla savana a servizi di moda.

Il suo lavoro più noto è The End of the Game dove raccontò il dramma degli elefanti dello Tsavo.Divenne quindi noto ovunque come il fotografo degli elefanti e dei ghepardi, delle giraffe e dei leoni, ma anche un incallito viveur e un dandy rubacuori. Sapeva spaziare dalle foreste incontaminate della Tanzania ai tavoli glitter dello Studio 54 di Manhattan.

Espose per la  prima volta nel 1975 alla Blum Helman Gallery di New York. Poi inizia un’intensissima attività: contribuisce alla stesura dei diari di Warhol.

Ha fotografato Veruschka, collaborato con Capoti, girato in tour con i Rolling Stones. Venne ritratto da Francis Bacon e ricoperto di pittura da Salvador Dalì.

Addio a Peter Beard e alla sua vita da romanzo

A metà anni ‘70, Peter Beard aveva scoperto e amato Iman, la top model poi miglie di David Bowie. All’epoca, lei aveva 20 anni ed era una principessa somala. Lui era già il fotografato naturalista, il fotografo naturalista avventuriero più famoso del mondo…

Grande appassionato della natura, dell’esplorazione e dell’apertura mentale “a nuove idee, incontri, persone, modi di vivere e di essere”. In questi giorni Taschen pubblica un libro su di lui e le sue creazioni/creature.

Tutta la sua poetica artistica fu ispirata dalla profonda attrazione per la morte e per il senso di perdita.

Il mal d’Africa

per lui era questo. Come aveva  raccontato in modo sublime nel lavoro che gli diede la fama “End of the Game” (1965) dove attraverso immagini crude e bellissime, descriveva l’agghiacciante cronaca del disastro nel Tsavo National Park in Kenya.

Infatti proprio li decine di migliaia di elefanti affamati avevano perso la vita per l’avidità e la ferocia degli esseri umani.

Metà diario e metà opera d’arte, dove alle foto, accosta ritagli di giornale, terra, sabbia, colore, foglie, pelli di animale, sangue (anche suo). Come una sorta di moderno e visionario profeta annunciava  con la fine degli elefanti la fine del mito della natura invincibile e incontaminata, quella africana.

Sapeva ritrarre gli animali in maniera intima, tragica. profonda, facendoli sembrare esseri umani feriti, sofferenti. Un uomo dalla pelle spessa e dura. come quella degli elefanti. Lontana la sua produzione di reportage anni luce dallo stile e dall’estetismo dei documentari di Quark o del National Geo.

I suoi erano quasi reportage di guerra. Nel 1996 viene addirittura aggredito da un elefante e per giorni lotta fra la vita e la morte.

Fino agli ultimi mesi ha lanciato avvertimenti angoscianti e previsioni apocalittiche sulla sorte della Terra. Ma Peter fu sempre stato un uomo di grandi contraddizioni.

Accanto all’instancabile impegno per la salvaguardia del pianeta metteva la sua proverbiale inaffidabilità: “non ho mai preso una decisione su qualcosa nella mia vita – ha detto un giorno in un’intervista – La cosa positiva dell’Africa è che puoi scappare per sempre. Puoi fare quello che vuoi, senza che qualcuno ti guardi alle spalle”.

Scriveva nei suoi diari: “sono attratto dalle cose futili, adoro l’inutilità dei miei lavori. Comporli è un po’ come fare la lista della spesa ogni giorno.

Apparentemente insignificante, eppure crea una trama che giorno dopo giorno, alla fine dell’anno diventa un racconto vivido e intenso. È un ispessimento della vita. Mi è sempre piaciuto farlo. È una droga”.

“Peter era un uomo straordinario che ha avuto una vita straordinaria”, lo descrive ancora la famiglia nel post pubblicato su Instagram. “Ha vissuto al pieno ogni giorno”.

Grande appassionato della natura, dell’esplorazione e dell’apertura mentale “a nuove idee, incontri, persone, modi di vivere e di essere”. In questi giorni Taschen pubblica un libro su di lui e le sue creazioni/creature. Era imperdibile già da prima. Adesso lo è ancora di più.

I suoi patchwork così unici (foto, cornici, ritagli di giornali, piccoli oggetti…), nati sul suo diario di bambino di 8 anni, hanno arricchito i fashion magazine.

Nello scratto con cui ritrasse la top Janice Dickinson da lui ad Athi Plains, casa sua, in Kenya, nel 1984, c’è tutto Peter Beard: la bellezza femminile, sensuale, felina, ferina… la lingua…).

La natura a fare da cornice al quadro…

Il mal d’Africa gliel’aveva passato proprio Karen Blixen. Quando vedrete La mia Africa noterete anche voi quanto Peter  Beard somigliasse a Robert Redford…

Condividi sui social