Nel 1963 fa il suo debutto la serie tv Il Gattopardo, film capolavoro affermatosi nella storia del cinema come grande classico internazionale, in cui la narrazione avvolge la critica politica con lussureggianti abiti ottocenteschi. Sebbene sembrino lontani gli anni della protesta rivoluzionaria, non è insolito, ad oggi, percepire quella stessa frenesia di cambiamento dimenarsi all’interno di silhouette sempre più succinte, spesso adorne di corsetti intimi che richiamano le fogge popolari dell’Ottocento.
È in questa dinamica che Netflix lancia una delle sue maestose serie,
un riadattamento de Il Gattopardo tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Tomasi e diretto da Tom Shankland, con la collaborazione di Laura Lucchetti e Giuseppe Capotondi, ricordandoci come la critica politica e la protesta non siano solo argomenti lontani, ma verità contemporanee.
Maestria sartoriale
L’ottica storica viene enfatizzata visivamente attraverso le strabilianti fogge ottocentesche, immenso contributo artigianale della famosa casa di costumi d’arte Tirelli, che, con cura e maestria, ha realizzato innumerevoli abiti d’epoca. Già nel 2001, la casa sartoriale aveva creato alcuni capi in occasione della mostra “La scena del Principe-Visconti” e “Il Gattopardo”, svoltasi a Palazzo Chigi ad Ariccia; luogo in cui furono girate alcune scene del film sotto la regia di Luchino Visconti. Per la nuova produzione, a ideare le fogge sicule è Carlo Poggioli, che negli anni ‘90 ha collaborato con Piero Tosi, l’allora costumista de Il Gattopardo viscontiano, ed Edoardo Russo.
Il grande impegno rivolto all’elaborazione dei costumi,
lavoro durato quasi più di un anno, ha portato alla realizzazione di 50 cambi solo per la protagonista, interpretata da Benedetta Porcaroli, un totale di 400 abiti e 2000 scarpe realizzati a mano. Si tratta di una produzione artigianale di grande valore culturale, che ci ricorda l’importanza delle tradizioni. La loro più grande ispirazione pare provenga da uno dei designer più importanti mai esistiti, ovvero Charles Frederick Worth, la cui influenza è particolarmente evidente nell’abito nuziale indossato da Angelica.
Una vicenda al femminile
Il romanzo, che esplora con profondità il periodo storico che va dal Risorgimento fino all’Unità d’Italia, si distingue per lo spiccato valore delle figure femminili. Uno dei temi centrali è il potere della ricchezza, che spinge uomini e donne a indossare maschere che celano la loro vera essenza, nel tentativo di raggiungere la felicità. La visione poliedrica della narrazione ci fornisce tutti gli elementi per identificare in Angelica una rappresentazione della mentalità patriarcale, secondo cui le donne sono considerate il perno per l’acquisizione del potere, e ciò ne mette in discussione il ruolo sia nella società del passato, che in quella odierna.
Il corsetto da elemento costringente a rivoluzionario
Uno degli elementi più in discussione degli ultimi 30 anni è il corsetto, indumento molto utilizzato nella serie. Per sua natura, questo bustino si presenta come un oggetto costrittivo e doloroso per le donne, che lo subivano passivamente, sacrificando la libertà di movimento e affrontando sofferenze fisiche: costole rotte e complicazioni durante la gravidanze. La sua abolizione avvenne con la prima spinta di emancipazione femminile, negli anni 20’, il cui merito lo possiamo attribuire a Coco Chanel, figura stipite della moda passata e contemporanea. Nonostante la storia di questo capo d’abbigliamento abbia segnato l’evoluzione della figura progressista femminile, nel corso dei secoli esso assume diverse fattezze. Il primo dei designer a volerlo ripescare dal passato, per contestualizzarlo in un’ottica di fermento trans femminista e provocatoria, è Jean Paul Gaultier.
Fu Madonna a renderlo celebre durante il suo Blond Ambition tour negli anni ’80,
trasformandolo in un must-have: un bustino in raso rosa con i seni dalla punta vertiginosa. Anche grandi nomi della moda, come Maison Martin Margiela, hanno adottato la filosofia del corsetto, identificandolo come simbolo sartoriale, utilizzandolo per rappresentare il corpo femminile come oggetto identificativo, sociale e provocatorio. Un altro contesto importante da considerare è quello delle Room Balls delle comunità “queer” negli anni ’80, spazi in cui la libertà individuale diventava il manifesto di rivendicazione dell’omosessualità.
Il voguing di Madonna diviene il pretesto per cui sfidarsi a suon di ballo, dimostrando come la spettacolarità del proprio corpo potesse avvalersi di ogni mezzo per accentuare la propria bellezza. In questo contesto, il costume, spesso ispirato alle fogge ottocentesche, diventa un elemento chiave, che mette in evidenza il punto vita in modi sorprendenti. Tra i protagonisti di questo fenomeno, spicca Ru Paul, che con la sua stravaganza ha dato vita all’America’s Next top Model della Drag Queen Race, esaltando la propria figura attraverso trucco, parrucco e costumi hand made.
Il corsetto diviene l’eletto costituente della storia della moda e del costume
abbandonando progressivamente la quotidianità, trasparendo negli outfit e facendoci riflettere sulla contraddizione della condizione femminile. Dobbiamo tuttavia ricordare che i suoi profondi valori simbolici ci hanno trasmesso grandi emozioni anche sul grande schermo, grazie a figure dello spettacolo come Lady Gaga, Katy Perry, Rihanna e Kylie Minogue, che delineano la loro femminilità e sinuosità attraverso la provocazione costringente di bustini steccati, firmati da grandi nomi. La realtà contemporanea, sempre più fluida, combina e riunisce gli elementi del passato per sdoganare e partecipare attivamente alle ribellioni predisposte storicamente, dimostrando come questo indumento stia diventando non solo più un elemento di lingerie, ma possa essere usato quotidianamente abbinato a pantaloni sempre più baggie e oversize.
Un ever green in grado di riunire fazioni di ogni genere
Ce lo ricordano i Pride e le comunità LGBTQI+, che liberano e abbattono ogni limite corporeo attraverso la nudità e il costume, per dire addio ai più reconditi preconcetti, dando finalmente il via libera alla fluidità genderless del vestiario collettivo.