L’ex presidente balla (quasi) da solo. Ad eccezione di KanYe West, Kid Rock e pochi altri, la musica USA scarica il tycoon e sceglie Kamala Harris. Il rapporto tra Donald Trump e i cantanti pop non è mai stato idilliaco. Chi ha buona memoria ricorderà gli scatti datati 1990 che immortalavano Michael Jackson seduto accanto a Trump su un jet privato che li conduceva al capezzale di Ryan White, il ragazzino malato di AIDS che commosse l’America per aver scelto di spendere gli ultimi anni della sua breve vita al fianco del Re del Pop (il quale poi gli dedicò la struggente ballata “Gone Too Soon” contenuta nell’album “Dangerous” ed eseguita dal vivo al cospetto del presidente Clinton e della first lady Hillary) in una storica campagna di sensibilizzazione sull’infezione da HIV che, nell’era pre-internet, coinvolse scuole, centri sportivi, canali televisivi, politica, pubblica amministrazione e società civile.
Viceversa, più o meno nello stesso periodo, era stata Nancy Sinatra, figlia del grande Frank, a rivelare al mondo quanto suo padre disprezzasse Mr. Trump, noncurante del fatto che il miliardario newyorkese aveva finanziato la realizzazione di un parco nazionale dedicato agli eroi americani, tra cui figurava lo stesso Sinatra, con tanto di statue commemorative.
Springsteen ed Eminem: apripista dell’anti-trumpismo
Se il boss Bruce Springsteen, da sempre paladino dei diritti e difensore delle classi più deboli in contrapposizione alle amministrazioni repubblicane, si era scagliato pubblicamente contro Donald Trump al termine del suo primo mandato presidenziale accusandolo di aver “devastato gli Stati Uniti d’America”, di aver “fatto amicizia con i dittatori” e di aver “negato la scienza” durante la pandemia, il gigante del rap Eminem si era spinto ancora più in là.
Nel 2017, infatti, tradendo un assist azzardato di Trump, il quale auspicava erroneamente di ricevere supporto, Slim Shady gli aveva dedicato un freestyle eseguito dal vivo sul palco dei BET Awards in cui lo demoliva senza pietà guadagnandosi una interrogazione da parte dei Servizi segreti. Da quel giorno, salvo poche eccezioni, gli oppositori del tycoon appartenenti alla scena musicale sono decuplicati. A complicare le cose tra Donald Trump e i cantanti pop, – avvezzo a diffondere senza autorizzazione alcuna brani celebri in occasione delle sue convention -, c’è la lista, sempre più lunga, degli artisti, peraltro non solo americani, che l’hanno diffidato, come fece in tempi non sospetti il nostro Luciano Pavarotti, dall’utilizzare le loro registrazioni.
Adele, gli vietò di trasmettere “Rolling in the Deep” e “Skyfall”; gli Aerosmith gli impedirono di usare “Dream On”; gli eredi di George Harrison, furiosi per l’utilizzo di “Here Comes the Sun” dei Beatles; e poi Bruce Springsteen per “Born in the USA”, Celine Dion, Elton John, i Guns N’ Roses, gli Everlast, Johnny Marr degli Smiths, Leonard Cohen, i Linkin Park, Neil Young, i Nickelback, Pharrell Williams, Phil Collins, Ozzy Osbourne, i Queen, i R.E.M., Rihanna, i Rolling Stones, i White Stripes e tanti, tantissimi altri.
Dalla parte di Trump, per fare l’America di nuovo grande
Incassato l’endorsement della leggenda del wrestling Hulk Hogan, il quale ha definito il candidato repubblicano “il mio eroe” e “il più grande patriota”, e stretta l’alleanza con il visionario oligarca Elon Musk (“se vincerò”, ha detto, “avrà un incarico”), il competitor di Kamala Harris è riuscito a guadagnarsi l’appoggio di uno sparuto “team Trump” musicale, equamente diviso tra artisti della tradizionale musica country e qualche rapper, a contrastare l’incredibile avversione tra Donald Trump e i cantanti pop.
Con una sola eccezione, quella del cantante, attore e filantropo Billy Ray Cyrus, repubblicano della prima ora (a differenza della figlia Miley). Il capitano, se così si può dire, è il super produttore hiphop KanYe West, personaggio a dir poco volubile noto per le sue esternazioni ai confini della realtà tra sparate antisemite, elogi a Hitler, deliri antiabortisti e posizioni negazioniste assai vicine a quelle diffuse da Trump e Musk, direttamente, o tramite fake news confezionate con la IA.
Altra supporter è Azealia Banks, la rapper più litigiosa d’America,
la stessa che in una rissa ad Harlem azzannò letteralmente un agente di polizia e, quest’anno, per ragioni di ordine religioso poco chiare, ha riesumato il proprio gatto morto con tanto di video sui social che lo documenta. “E’ fottutamente funky”, ha detto Azaelia di Trump, “Quante bancarotte ha avuto? Quante mogli? Quanti show televisivi? Seriamente, niente può fermarlo”. Non meno esaltati sembrano essere il rapper DaBaby, secondo il quale Trump è meritevole di appoggio perché “è un gangster”, e il country rocker Jason Aldean, quello del controverso videoclip di “Try That in a Small Town” (il cortometraggio fu subissato di critiche perché incitava alla violenza, al razzismo e all’uso delle armi), che lo ha definito “un guerriero”.
A sentir loro, chiunque sia refrattario ai principi democratici,
chiunque pensi che sia legittimo diffondere fake news, chiunque neghi la scienza e l’allarme climatico, o aneli una società razzista che si fa giustizia da sola grazie a un uso privato e indiscriminato delle armi, o simpatizzi per Vladimir Putin oppure, più in generale, pensi che l’occidente debba piegarsi alle logiche sovraniste e ultranazionaliste, può essere arruolato. Purtroppo per Trump, di artisti che la pensano così ce ne sono sempre meno.