Si è conclusa la cerimonia di premiazione della 74esima edizione del Festival del Cinema di Berlino, ad aggiudicarsi l’ambita statuetta è il film-documentario Dahomey, opera seconda della regista franco-senegalese Mati Diop. Sul palco vestita Chanel con il petto incorniciato da un motivo primavera come perfetta allegoria del suo piccolo capolavoro. Candida e genuina, con le labbra strette e smorzate nel timido tentativo di contenere un torrente di gioia. Vi si percepisce l’altruismo e la tempra di chi si carica sulle spalle l’onere di una missione collettiva e comunitaria. Fiera e determinata, Mati Diop ha gli occhi pieni di luce e ricolmi di speranza, mentre incredula sorregge l’Orso d’oro con la mano destra. La cineasta sa di non essere sola e dedica questa vittoria alle persone che hanno creduto in questo progetto; con distinta eleganza tiene il braccio sinistro attaccato al busto, resta composta e ancorata al terreno, in equilibrio, accingendosi ad immortalare il momento con un selfie.
Mati Diop e il tema identitario della “restituzione”
Una donna da record, infatti non è la prima volta in cui calca le scene della ribalta. La ricordiamo a Cannes nel 2019 quando è stata la prima regista di colore a ricevere il Grand prix du Festival de Cannes con la sua opera prima, la toccante testimonianza diasporica di Atlantique. Il racconto di un amore impossibile che si compie in una nebbia onirica dove la regia entra in punta di piedi, un efficace messa in luce del concetto di predeterminazione in una disperata ricerca di rivalsa. La brillante dicotomia tra il presagio di una tragedia annunciata e il desiderio di una salvezza divina. Si rivela uno scontro che incatena lo spettatore in un limbo salmastro dove serpeggiano minacciose le contraddizioni del post colonialismo moderno. Conseguenze sociali catastrofiche che continuano a sciamare nelle smisurate crepe strutturali di una popolazione costretta all’esilio che ha perso la propria identità.
Un popolo abbandonato nella sua oscurità, senza voce, che sovente decide di prendere il largo andando incontro alla morte pur di non restare in quell’inferno in terra. Questa è la missione di Mati Diop, cresciuta a Parigi, erede di una famiglia di artisti senegalesi. Lo zio Djibril Diop Mambéty è considerato uno dei registi più visionari del panorama africano ed è suo il tema del viaggio che ha meritatamente trasmesso alla nipote. Il ritorno, il senso di vendetta, di perdizione, il dramma di una giustizia che non potrà mai compiersi, la necessità di andare avanti e di accettare il passato, in una parola: “restituzione”. Ed è questo che accade in Dahomey, quando nel 2021 la Francia restituisce 26 manufatti saccheggiati al Regno di Dahoemy (nell’attuale Benin) dalle truppe colone nel 1892. La regista, intuendo il valore simbolico di questo accordo, si impegna così a seguirne le tappe:
“Inizialmente pensavo che avrei dovuto fare una fiction, ero dell’idea che ci avrebbero messo almeno 20-30 anni per restituirle”.
Colonialismo e voci dal passato
Tra le opere restituite sono presenti anche le importantissime figure zoomorfe del re Ghezo – che ha governato il Regno di Dahomey dal 1797 al 1892 – e dei suoi eredi Glele e Béhanzin, raffigurati rispettivamente nella testa di un uccello, di un leone e di uno squalo per sancirne la natura divina. Mati Diop intuisce che questo avvenimento può creare un precedente storico e sfrutta l’occasione per toccare la coscienza degli spettatori e dimostrare l’urgenza dei popoli africani di recuperare le proprie radici. Lo fa nelle scene ambientate in un campus universitario dove vediamo giovani dibattere sulla restituzione dei manufatti, giovani che hanno lo stesso senso di rivalsa dei moti del ’68 impressi nelle pellicole godardiane; sono in molti a sottolineare il fatto che sono ancora più di 7.000 i manufatti da restituire sparsi in giro per il mondo. Opere identitarie e fondamentali che restano ingiustamente lontane dalla loro terra natia, costrette in ostaggio delle vetrine museali dei coloni. Manufatti che non hanno dimenticato le sofferenze e le ingiustizie di questi popoli vessati, Mati Diop li mette in scena dando loro un’anima. Ed è il re Ghezo che, veemente, con una voce distorta che trascende il mondo terreno, giudica amaramente l’operato dei colonizzatori. Questi ultimi sono stati i detentori indegni di tesori violati, e afferma:
“Io sono il volto della metamorfosi.”.
Una regista poliedrica, la sinergia con Chanel
Lo scorso giugno, in occasione della sfilata Métiers d’art 2022/2023 a Tokyo, la casa di moda commissiona a Mati Diop il fashion movie Tokyo Trip. Un viaggio, appunto, cui la talentuosa Mama Sané si immerge nell’atmosfera cittadina vagando per le sue strade dall’alba al tramonto e diventando un tutt’uno con i paesaggi scanditi dalle storie dei suoi abitanti. Qui, ancora una volta, la regista lascia la sua firma distintiva, decidendo di non abbandonare la dimensione del sogno dalla quale ha scelto di svelarci il suo punto di vista. Un po’ come se ci stesse rivelando di non sentirsi ancora pronta per accettare le avversità che costellano la nostra quotidianità; per lei questo mondo terreno è ancora troppo doloroso da raccontare.