In superficie sembra un’occasione di riscatto, ma basta scavare in profondità per rendersi conto di quanto una parte della fashion industry sia in grado di sfruttare anche le persone più in difficoltà, facendo perno proprio sulla loro disperazione. Nel mondo della moda non arresta il dibattito sulle modelle rifugiate reclutate in nome dell’inclusività dopo che una inchiesta giornalistica ha rilevato le condizioni “usa e getta” a cui sono costrette molte giovani ragazze, prelevate appositamente dalle agenzie nei campi profughi. Una storia tristissima che merita di essere denunciata a gran voce.
Modelle trattate come carta straccia
A far emergere il modus operandi di alcune agenzie è stato un noto giornale fondato e distribuito nel Regno Unito. La testata ha infatti posto l’attenzione su una ciclicità molto pericolosa che, in quello che si rivela poi un processo di scrematura terribile, porta alcune modelle a farcela (vedasi ad esempio gli esempi vincenti di Adut Akech, Alek Wek, Halima Aden) mentre tante, tantissime altre costrette a tornare a casa, senza un euro, senza sogni ma solo con amarezza e una montagna di debiti.
Il reportage prende come punto di riferimento un campo rifugiati presente in Kakuma, territorio collocato al nord del Kenya. Una delle terre più povere del pianeta, dove uomini e donne vessano in condizioni di disagio assoluto, umiliazione e una dignità calpestata quotidianamente. Un luogo dunque difficilissimo dove vivere in cui, come purtroppo immaginabile, le donne si trovano in una situazione ancora più disperata e contrassegnata da violenze, maltrattamenti e nozze combinate. Chiunque dunque farebbe carte false per scappare e fuggire in un posto più sicuro.
Ed è proprio nelle condizioni più disumante che si palesano sciacalli, in questo caso sciacalli della moda, rappresentanti di alcune agenzie che, sfruttando proprio l’assoluto senso di miseria, fanno leva sulla richiesta sempre più inclusiva da parte delle aziende andando a reclutare, a prezzi stracciati, modelle di colore pronte per essere portate in passerella. Insomma, siamo al cospetto di una classica offerta impossibile da rifiutare. Cosa chiedere di meglio infatti di un lavoro che ti consente di uscire dall’inferno, con una prospettiva tangibile di calcare le runway più importanti del mondo?
Il grande inganno
Occorre tuttavia capire come si articola nei fatti il “grande inganno”. L’errore primordiale arriva spesso dagli stessi marchi di moda, i quali per mera comodità decidono di affidarsi a model agency locali e poco affidabili. Il procedimento è semplice: gli scout africani fanno visita ai vari campi profughi, cercando di captare le ragazze più vicine ai propri canoni offrendo una prospettiva vantaggiosa fatta di successo, soldi e fama.
Ma c’è un però. L’agenzia infatti si impegna a pagare i documenti utili per uscire definitivamente dal campo e lavorare quindi all’estero solo in un secondo momento, ovvero dopo che la candidata modella prescelta riesce a superare i casting. Dopo una prima fase in cui le ragazze trascorrono buona parte in albergo contando su una cifra bassissima offerta dall’agenzia per poter partecipare ai provini, avviene quindi l’agghiacciante “selezione naturale”. Chi viene scelta potrà definitivamente abbandonare il campo rifugiati, chi non supera nessun casting è invece costretta a tornare in Africa, ricadendo dunque nuovamente nella situazione di fame e miseria.
Ma oltre al danno c’è anche una terrificante beffa in quanto, una volta rientrata nel campo, l’agenzia in questione esige il rimborso delle spese sostenute durante i casting; cifre che risultano insostenibili per ragazze abituate ad una condizione di povertà assoluta.
La nascita dell’account @runwaystofreedom
Per evitare il protrarsi di questo scempio è nato su Instagram un account, – creato proprio per supportare modelle migranti e rifugiate -, utile come elemento di divulgazione, condivisione e soprattutto informazione per spegnere una propaganda che si approfitta costantemente dei più deboli a favore di beceri interessi personali.
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