Ritrovare il proprio «centro di gravità permanente» non è facile. Lo cantava Battiato e lo sta vivendo Cara Delevingne, la top model britannica, protagonista di alcune foto shock, scattate, lo scorso settembre, in uno dei suoi momenti peggiori. Ora sta meglio, rivela, grazie a un percorso di terapia lungo e difficile, ma che l’ha portata a fare pace con sé stessa e con la vergogna che provava. Che poi, non è forse quella che sentiamo anche noi nei momenti difficili?
«Il modo in cui la società si occupa del processo di guarigione è pericoloso. È molto facile far vergognare le persone e usare parole contro di loro. Non importa se c’è uno stigma. Questo rende ancora più difficile affrontare un percorso».
A parlare è Cara Delevingne, la supermodella britannica protagonista, lo scorso settembre, di alcuni scatti che hanno fatto preoccupare amici e fan. Era lei la ragazza scalza, spettinata, in evidente stato confusionale fotografata all’aeroporto di Los Angeles. Non era un buon periodo, anzi, a dire la verità, aveva toccato il fondo e raggiunto il punto più basso della sua vita.
Vederlo sulle pagine dei giornali, in tutta la sua brutalità, è stato come fare un «reality check», rivela. «Se avessi continuato così, sarei morta o avrei fatto qualcosa di davvero stupido».
Ma riavvolgiamo il nastro: chi è e come era la vita di Cara Delevingne prima di quelle foto?
Era una vita «blessed», benedetta. All’apice della carriera, come modella e non solo, aveva cavalcato le passerelle di Burberry, Versace e Fendi. Nel 2014 aprì la sfilata protesta di Chanel, ideata da Karl Lagerfel per la settimana della moda di Parigi. Nello stesso anno, fu classificata tra le cento donne più belle del mondo. Personaggio eclettico, si dedicò anche alla recitazione: seguirono così le sue comparse sul set di Paper Town nel 2015 e su quello di Suicide Squad nel 2016. La Delevingne era la quinta modella più pagata nel 2016: un guadagno di 8,5 milioni di dollari, e, nel 2018, raggiunse uno stipendio da 10 milioni.
Il suo passato però non era così luccicante: dentro di lei c’era tanto buio
La sua prima sbornia è arrivata presto, all’età di sette anni, dopo una festa di matrimonio in famiglia. A dieci anni, la prima prescrizione di pillole per gestire l’insonnia e poi la diagnosi di disprassia, un disturbo che colpisce i movimenti e la coordinazione. Quello è stato l’inizio dei suoi problemi di salute mentale e degli episodi di autolesionismo. Non sono bastati gli anni successivi di musicoterapia, di terapia cognitivo comportamentale o di EMDR (acronimo di Eye Movement Desensitization and Reprocessing, ovvero una tecnica per affrontare i ricordi non elaborati).
I flash dei fotografi sulle passerelle di certo non aiutarono la modella che allora cominciò a rifugiarsi nell’alcol e nelle sostanze stupefacenti. Tentava così di fuggire da una realtà che non le piaceva, da ricordi troppo dolorosi, forse, quelli della madre Pandora, affetta da bipolarismo e da dipendenza dall’eroina. Poi è arrivato il Covid che ha portato via ogni certezza.
«Mi sono sentita come se non avessi uno scopo, come se non valessi nulla senza il mio lavoro. È stato spaventoso».
Dopo la pandemia, il mondo ha ricominciato a girare e così anche i progetti e le collaborazioni
Tra queste, la docu-serie Planet Sex, incentrata sull’analisi e l’esplorazione della sessualità a trecentosessanta gradi. Ed è stata quella l’occasione per la top model di essere veramente se stessa imparando a mostrare le sue emozioni mentre stava recitando, perché non si sentiva ancora abbastanza pronta di provare quei sentimenti da sola. Stare di fronte alle telecamere di un programma che metteva al centro le dinamiche del desiderio, la monogamia e l’identità di genere ha smosso qualcosa in Cara, da sempre fiera icona queer del suo tempo. Planet Sex è stata per lei un’esperienza destabilizzante, ma liberatoria, grazie alla quale ha potuto fare i conti con molte paure, come l’omofobia, e un forte senso di vergogna di sé.
Mentre filmava la docu-serie la raggiunse a Tokyo una notizia tagliente:
la morta della nonna Jane Sheffield, l’unica che era stata in grado di offrirle un posto “sicuro” durante la difficile infanzia. Ricominciò allora un periodo difficile per Delevingne, come rivelarono i suoi sfoghi di psoriasi, mostrati con fierezza al Met Ball, due settimane dopo il lutto. Il forte stress e il venir meno di molte sue certezze la portarono, ancora una volta, a nascondersi nell’abuso di droghe e di alcol. L’estate del suo trentesimo compleanno fu un periodo di «baldoria autodistruttiva ed edonistica», racconta, «non potevo più sostenere quella vita». E così, dopo Ibiza e il viaggio nel Nevada’s Black Rock Desert per Burning Man, arriviamo a quei famosi e preoccupanti scatti in aeroporto. Un punto di non ritorno per la giovane: «Da quel settembre, capii di aver bisogno di supporto. Tutti i miei vecchi amici, che conoscevo da quando avevo 13 anni, sono venuti a casa mia e abbiamo cominciato a piangere. Mi hanno guardato e detto: “Tu meriti un’opportunità per essere felice”».
E così Cara l’ha colta, quell’opportunità
Ha iniziato il programma di terapia in dodici fasi, un percorso lungo, faticoso, che l’ha portata al sorriso di oggi. Cara Delevingne ha capito così l’importanza del lavoro su se stessa e di non nascondere quello che ha attraversato e ciò che sta facendo ora per aiutarsi.
«Prima era la mia vergogna a parlare, non ero io. La cosa più bella di questo percorso è il fatto di non vergognarsene».
Con consapevolezza racconta delle sue sessioni di cura settimanali, dello yoga e dello psicodramma, una forma di terapia che permette di mettere in scena le proprie emozioni. “L’opposto delle dipendenza è la connessione”, spiega, rivelando il profondo beneficio della terapia di gruppo.
Quest’anno ha festeggiato il primo Natale e il primo Capodanno da sobria: onestamente, i migliori che abbia mai vissuto. Una vita nuova, la sua, in cui passa del tempo davvero di qualità, a differenza di prima, quando l’alcol annebbiava i momenti di divertimento. Ed è prezioso per tutti il suo messaggio:
«La tua vita può davvero cambiare se ti dai la possibilità di essere chi sei davvero. All’inizio stare dentro la situazione è scomodo, ma poi migliora, minuto dopo minuto. Questo è il motivo per cui trovo il termine “recupero” poco adatto, perché non è che recuperi. Preferisco il termine “guarigione”.
Il suo è stato e sarà un percorso fatto di alti e bassi, doloroso e stimolante, ma, comunque, ne vale sempre la pena.