Ci siamo cascati, di nuovo… Parafrasando le parole di un brano di Achille Lauro. Pochi giorni fa, l’8 marzo abbiamo assistito ad un altro down tecnologico e, questa volta, le sue vittime illustri sono state le piattaforme Spotify, che conta più di 75 milioni di utenti in tutto il mondo, Twitter e WeTransfer, la piattaforma che permette lo scambio di files tra utenti.
Non appena Spotify ha iniziato a creare problemi agli utenti
come l’impossibilità di accedere o la chiusura improvvisa dell’app mentre era in uso, è partito un tam tam su Twitter dove #Spotifydown è diventato subito un trend topic. Peccato che nel breve volgere, la stessa sorte sia toccata anche al sistema di messaggistica istantanea. Come spesso avviene in casi simili i tecnici delle rispettive piattaforme si sono messi al lavoro per far rientrare il disservizio fornendo aggiornamenti su come procedere al lavoro di ripristino. Nel caso di Spotify, in particolare, il suggerimento è stato di installare di nuovo l’app per avere la versione più aggiornata ma con un effetto collaterale: la necessità di scaricare, di nuovo, le playlist piuttosto che i podcast.
Non più tardi dello scorso anno, nel mese di ottobre, tutto l’universo tecnologico che fa capo a Mark Zuckerberg,
ovvero Facebook, Instagram e Whatsapp aveva smesso di funzionare all’improvviso. Anche in quel caso l’hashtag era diventato virale ma gli effetti collaterali erano stati maggiori. Basti pensare a quanto la comunicazione di negozi e altri esercizi commerciali viaggi oramai su Whatsapp mentre gli stessi dipendenti di Menlo Park, in California, non riuscivano ad entrare negli uffici perché il badge non funzionava. L’azienda ha fatto poi sapere che il problema tecnico era riconducibile alla migrazione dei tre social verso un’unica piattaforma. Intanto, nello stesso mese di Ottobre 2021, Zuckerberg ha annunciato il cambio di nome della sua società che ora si chiama Meta. Un cambio di passo per esplorare le potenzialità del metaverso che aveva alimentato, a febbraio, voci di una possibile chiusura di Facebook e Instagram in Europa anche alla luce delle nuove norme sulla gestione dei dati personali.
Era come se, all’improvviso, l’unica forma di comunicazione possibile fosse quella tecnologica.
Su questo argomento sono nati diversi gruppi di discussione ma… sempre sui social. Ci si chiedeva, per esempio, quali attività avevano riempito le ore di fermo della tecnologia e quale potesse essere l’alternativa per tornare a parlarsi rispolverando l’uso dell’email come se già appartenesse alla preistoria. Ha piacevolmente sorpreso leggere, in un sondaggio di LinkedIn, la percentuale di quanti hanno risposto che il down della tecnologia non aveva sconvolto più di tanto la loro esistenza.
Sì, perché oramai la tecnologia, con i social e la crescita esponenziale delle piattaforme di streaming,
è una parte consistente del vivere quotidiano, che si tratti di svago o delle tante professioni nate con e per i social. Al punto che si sente parlare, sempre più spesso, di “Fomo”, un’abbreviazione inglese che sta per “Fear of missing out”, la paura di non essere visibili e dunque di smettere di esistere e partecipare alla condivisione della propria e altrui vita sui social. Allo stesso modo, anche l’universo del benessere ha iniziato ad offrire sedute che contemplano il digital detox, inteso nella doppia accezione di allontanamento momentaneo dai social e pausa dallo schermo dello smartphone e dalla sua luce blu per il benessere di occhi e pelle.
La pandemia ha poi accentuato il peso e l’importanza della tecnologia
Basti pensare che un portatile o uno smartphone sono stati il solo collegamento con il mondo esterno, con il proprio lavoro, con la scuola, mettendo in luce la sua utilità, anche i suoi limiti. La condivisione è stato un modo per esorcizzare la paura di un qualcosa mai provato prima e ha permesso le prime, timide, ripartenze delle manifestazioni collettive come la moda e il design che sono tornate a esistere in forma ibrida, ma sono tornate. La tecnologia sta aprendo nuovi scenari per diversi settori con l’avvento di beni virtuali, i cosiddetti Nft, acronimo di Non fungible token, verso i quali si stanno orientando la moda e soprattutto l’arte contemporanea con la crypto art. Assisteremo ad altri down della tecnologia? Probabile, ma sarà interessante monitorare come si reagisce e quali alternative l’essere umano sarà in grado di mettere in campo.
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