Forse il modo migliore per raccontare la storia della regista Lina Wertmüller è rivelare come ha iniziato a fumare in una scuola cattolica. “Era poco prima delle vacanze di Natale e le suore tenevano una conferenza su quanto fosse indecente per le ragazze per bene, fumare. Lina non aveva mai fumato prima e mai ci aveva pensato, ma era così infuriata per il sermone morale che ha deciso di iniziare a fumare subito, frequentando ragazze che già fumavano.” Lina Wertmüller, un’anticonformista nel cuore; ha trasgredito le regole fino dalla giovane età, scegliendo di seguire la sua passione, che fosse per il fumo, per il teatro o per il cinema.
“Sono appassionata di libertà. Sono per natura un’ anarchica, un’ individualista”
Una dinamo racchiusa in una cornice minuta con i suoi caratteristici occhiali di plastica bianca e i capelli candidi portati alla garçonne che hanno definito lo stile e l’estetica della grande regista scomparsa lo scorso 9 dicembre a Roma, a 93 anni.
La storia della futura regista nasce a Roma il 14 agosto 1928
Lina Wertmüller
è lo pseudonimo di Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spañol von Braueich. Cresciuta in una famiglia svizzera di discendenza aristocratica, devotamente credente che comprendeva nobili, capitani e banchieri, ma anche avventurieri e artisti; è sempre stata una bambina ribelle, tanto da farsi espellere da più di una dozzina di scuole conventuali. A 16 anni ha abbandonato i suoi studi per una scuola di recitazione, dove si è immersa nella tradizione di Stanislavski. Alla fine dopo essersi diplomata ha lavorato in teatro, nella recitazione, alla regia e alla scrittura per 10 anni facendo l’apprendista con i maestri del neoreliasmo italiano; oltre a girare l’Europa con una compagnia di marionette. Il primo lavoro di Lina Wertmüller nel cinema è stato quello di scovare volti interessanti per Federico Fellini che le è stato presentato dall’amica d’infanzia, poi diventata moglie di Marcello Mastroianni, Flora Carabella.
Il maestro italiano era all’apice del suo successo e lei era una giovane burattinaia ambiziosa; più interessata a catturare per se stessa le riprese della location che a onorare i doveri di assistente alla regia del film del 1963, “ Otto e mezzo”. L’influenza di Fellini può essere avvertita nel suo primo film “I basilischi” che guarda e ironizza la vita senza scopo di tre giovani uomini titolati, nella provincia meridionale italiana. Anche la televisione ha decretato il suo successo, con la regia di “Canzonissima” e “Il giornalino di Gaianburrasca” che è stato un travolgente trionfo lanciando anche la carriera di Rita Pavone. In quel periodo è diventata amica dell’attore Giancarlo Giannini; la loro collaborazione ha abbracciato nove film di successo tra cui la commedia sessuale rauca e la satira sociale.
Lina Wertmüller, prima donna regista nella storia ad essere nominata all’Oscar, a possedere e governare lo spirito del tempo.
Ha diretto film in un’epoca in cui quasi nessuna donna dirigeva ancora film. È stata la prima a ricevere una nomination all‘Oscar come miglior regista, nel 1976 per l’avvincente e oltraggioso “Sette bellezze”, la prima ad adornare le copertine delle riviste più importanti. Lina era un vulcano, sapeva tutto. Conosceva la danza, la recitazione, la macchina da presa, l’illuminazione, la scrittura, il montaggio; la sua immaginazione era sconfinata.
In quel periodo in Italia dominava la commedia all’italiana.
Quindi si è aggrappata a questo, che l’ha portata oltre. L’ha resa più grottesca, più estrema e anche più ironica, con personaggi molto ben definiti. Era molto audace; quando voleva qualcosa, era implacabile. I suoi film erano esagerati, sfacciati, estenuantemente “emotivi” e provocatoriamente scorretti, prima ancora che il termine “politicamente corretto” fosse inventato.
Lina Wertmüller si è affermata come la regista più discussa della storia del cinema mondiale degli anni ’70.
Con il suo caratteristico mix di umorismo contorto, erotismo selvaggio e critiche incendiarie della società italiana; provocazioni vistosamente comiche e bellicose. E, il fatto che un cinema così rauco e allo stesso tempo divertente fosse stato creato da una donna, era una parte importante del prestigio. I personaggi erano simpatici, non importa quanto inetti, arroganti o criminali e i loro dialoghi erano spettacolarmente vivaci e riconoscibili, arricchiti con dialetti italiani del nord e del sud e una spruzzata di espressioni colorate.
“Troppa passione è un punto di vista diverso; non riesco a spiegare perché quando inizio a scrivere una storia, è la storia che porta me, non io che porta la storia”.
Di fronte al maschilismo radicato della società italiana, Lina ha creato un idolo comicamente bello:
Giancarlo Giannini, è diventato il suo alter ego. Il suo periodo di fama è stato definito da quattro film – “Mimi metallurgico ferito nell’onore” (1972), “Film d’amore e d’anarchia” (1973), “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto” (1974) e “Pasqualino settebellezze” (1975); Giannini ha recitato in tutti loro, mettendo al centro del suo marchio la sua elegante mascolinità dalla faccia carina, una sorta di Mastroianni che incontra Chaplin. La predilezione di Lina Wertmüller per i titoli lunghi era espressione ironica del disprezzo delle convenzioni aristocratiche, da cui lei era scappata e forse anche uno scherzo ai produttori che dovevano inserirli in cartellone.
Vezzi e virtù della Signora del cinema
Lina Wertmüller
ha sempre rivelato la sua passione per gli occhiali bianchi, sua nota distintiva; un dettaglio che, unito alla capigliatura corta alla maschietto, l’ha resa iconica. Occhiali dietro le cui lenti fumè celavano occhi indagatori, attenti e penetranti, sempre pronti a cogliere dettagli con però un’aria leggera e vacanziera. Un tratto glamour che evidenziava la sua doppia anima; da un lato drammatica e seria e dall’altro leggera, ironica e ribelle. Come è stato anche messo in luce da Valerio Ruiz, suo storico assistente alla regia, nel toccante documentario ”Dietro gli occhiali bianchi”, creato nel 2018, per celebrare i suoi 90 anni.
Un personaggio coerente e ricco di sfumature che credeva nell’amore.
Sposata per quarantaquattro anni con l’artista e scenografo Enrico Job, stroncato nel 2008 da una leucemia fulminante, ha avuto un unica figlia adottiva. Maria Zulima è frutto della relazione extraconiugale del marito con una donna sposata che non la voleva. Ma invece Lina, all’età di 62 anni, l’ha voluta adottare, lottando anche in tribunale, diventando madre di una bambina che lei ha sempre amato come frutto dell’amore con Enrico Job.
“Non sono una regista tranquilla, non sono carina, non sono una signora, forse nemmeno una donna. Sono solo un’artigiana arrabbiata che deve risolvere problemi tra tempo, denaro e politica”.
Lo ha fatto per tutta la vita, fino al suo ultimo film “Mannaggia alla miseria”. Una commedia in cui tre giovani dottorandi, dopo un viaggio in Bangladesh, ritornano a Napoli con un ambizioso progetto: fondare, sull’esempio del Premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, una banca dei poveri.
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