L’Onu, nell’ultimo rapporto “Climate change report 2021″ sull’emergenza climatica, sollecita una più veloce e ferrea transizione ecologica a governi e aziende e lancia nuovi obiettivi per il climate change fashion.

“Il nostro messaggio ad ogni paese, governo, impresa e parte della società è semplice. Il prossimo decennio è decisivo per l’azione per il clima. Dobbiamo tutti seguire la scienza e abbracciare le nostre responsabilità per mantenere vivo l’obiettivo di 1,5°C, questo include l’industria della moda”,

afferma Alok Sharma, presidente designato della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.

Il messaggio è chiaro e inequivocabile: i progressi che le aziende di moda stanno facendo per mantenere le promesse sul “climate change fashion “

sono troppo lenti, ben al di sotto della loro retorica comunicazione sull’impatto ambientale. In tutto il settore moda, negli ultimi anni i brand hanno rilasciato impegni sul clima che fissano obiettivi ambiziosi per il 2040 e il 2050; ma senza strategie chiare su come raggiungere tali obiettivi e senza una tempistica di obiettivi intermedi, gli esperti sono convinti che non ce la faranno. Il rapporto dell’ IPCC (comitato di scienziati convocato dalle Nazioni Unite) chiarisce che è ciò che le aziende faranno nei prossimi cinque o dieci anni che conterà davvero; se non si ridurranno significativamente le emissioni entro il 2030, gli obiettivi per il 2050 potrebbero essere vani.

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La mera dichiarazione dell’ambizione di cambiare non è più sufficiente.

Alok Sharma invita le aziende a prendere impegni improrogabili, anche con la campagna “Race to Zero”, un’iniziativa sponsorizzata dalle Nazioni Unite, che riunisce governi, aziende e altri in tutto il mondo per raggiungere zero emissioni di carbonio entro il 2050. Mentre le aziende di moda parlano più che mai di sostenibilità, un’analisi completa ha rilevato che le azioni sono in ritardo rispetto agli impegni dichiarati, anche tra le industrie più grandi e con più risorse del settore. Il punteggio medio complessivo delle realtà valutate è stato di appena 36 su 100, con significative disparità tra impegno e azione. Nel complesso, i progressi si orientano verso la definizione degli obiettivi, con dati spesso auto-riportati e non verificati.

Nessuna azienda ha ottenuto un punteggio superiore a 50 su 100.

I migliori sono stati la casa di lusso francese Kering e Nike, che hanno segnato rispettivamente 49 e 47. Il rapporto afferma che molte delle più grandi brand della moda non sono trasparenti rispetto alla provenienza dei loro prodotti, e più si scende lungo la catena di approvvigionamento, più le cose diventano fumose. Ciò consente la violazione dei diritti umani attraverso lo sfruttamento e non permette la misurazione dell’impatto ambientale. Senza un intervento significativo, l’industria non si allineerà con gli obiettivi per limitare il riscaldamento globale a non più di 1,5 gradi Celsius.

L’industria dell’abbigliamento è ancora una delle più grandi minacce per il nostro ambiente globale, l’obiettivo del climate change fashion è ancora lontano.

Le cifre sono schiaccianti, il settore tessile ha molto a cui rispondere in quanto è la seconda industria più inquinante del pianeta dopo quella della produzione di petrolio. Stabilire esattamente quanto siano sostanziali le emissioni di gas serra della moda è difficile, ma le stime vanno dal 4% al 10% del totale globale oltre al 20% dello spreco globale di acqua; si stima inoltre che il 20-30% delle microplastiche oceaniche sia proveniente dal settore. Misurare i progressi rispetto agli obiettivi delle industrie è impegnativo. Molti non hanno reso accessibili le informazioni attraverso i propri canali, fornendo solo dati sulle emissioni della produzione tramite terze parti. Alcuni non pubblicano affatto queste informazioni.

I governi sono esortati ad amplificare la sostenibilità in azione,

riconoscendo e sostenendo il lavoro dei pionieri e ponendo fine allo sfruttamento e al danno ambientale. Oltre a passare a tessuti sostenibili, i marchi devono considerare l’intero ciclo di vita del prodotto, compreso il passaggio all’energia pulita e alla pianificazione di opzioni di end-of-life che non coinvolgano il ricorso alle discariche e possano invece essere parte di ecosistemi rigenerativi. La moda non è neanche lontanamente “sostenibile” e i designer e i brand devono fare i conti con il fatto che, indipendentemente dai tessuti o dalla confezione che scelgono, stanno ancora producendo e consumando troppo. Il consumo eccessivo ha superato la sovrappopolazione come principale motore del cambiamento climatico e una ricerca evidenzia che in realtà acquistiamo di più quando gli articoli sono etichettati con parole come “riciclato” o “circolare”.

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Nuove improrogabili sfide si affacciano per il climate change fashion.

Il termine che ci si può aspettare di sentire in un futuro vicino non è solo “sostenibilità”, ma “positività climatica”; cioè dare al pianeta più di quanto prendiamo. La positività climatica o “positività della terra” suggerisce che un brand stia svolgendo un “ruolo attivo” nell’invertire il cambiamento climatico; ruolo che supera la definizione di “Climate Neutral” incoraggiando le aziende, non solo ad allineare i propri obiettivi con gli obiettivi basati sulla scienza, ma ad attivarsi per ricreare. È innegabilmente allettante l’idea che, invece di “fare meno danni”, la moda possa effettivamente avere un impatto positivo sul pianeta e che i vestiti che acquistiamo possano aiutare a combattere il cambiamento climatico.

E’ troppo bello per essere vero?

Qualcuno ha già cominciato in modo ufficiale; a giugno, Burberry è diventato il primo marchio di moda di lusso a impegnarsi a diventare clima positivo entro il 2040. Si è impegnato a rimuovere più carbonio dall’atmosfera di quello che emette. Come? Finanziando progetti di resilienza climatica, investendo in soluzioni basate sulla natura e ripristino dell’ecosistema e, soprattutto, riducendo le proprie emissioni di produzione del 46%.  Resta da vedere esattamente come ciò accadrà perché, come sostiene l’Onu, le dichiarazioni non sono sufficienti, bisogna passare all’azione. La realtà è che tutti dobbiamo fare molto di più.

Per ora continua ad essere molto più importante raggiungere per tutti l’impatto zero prima di parlare di impatto positivo.

Tutto questo potrebbe essere all’orizzonte per i marchi come Burberry, Stella McCartney, Kering; come Gucci e Balenciaga, che hanno collaborato con l’ Apparel Impact Institute per “attuare” soluzioni creative sull’uso di energia, acqua e prodotti chimici nelle loro fabbriche italiane. È un raro esempio di concorrenti che collaborano per il climate change fashion. Kering mira a ridurre le emissioni della catena di approvvigionamento del 70% entro il 2030. Pvh, proprietario di Tommy Hilfiger, ha promesso una riduzione del 30% entro il 2030.

Gli esperti vogliono vedere sforzi più completi, aggressivi e urgenti da parte della moda che si concentrino su cambiamenti a spettro completo e non frammentari.

Per un impatto più sostanziale, la riduzione delle emissioni deve coinvolgere non solo materiali più sostenibili, ma una completa transizione verso l’energia rinnovabile; ma non solo, anche un modello di business diverso che si basi meno sullo sfornare volumi crescenti di nuovi abiti. Ognuno deve fare la propria parte per il raggiungimento degli obiettivi del climate change fashion, sono necessarie aziende consapevoli e consumatori consapevoli della propria responsabilità.

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