Abiti inindossabili e moda come immagine che racconta un’epoca, che descrive storie e identità. Moda che valica i confini dello streetwear e della haute couture per trasformarsi in opera d’arte. Insieme al fenomeno contemporaneo del Fast Fashion assistiamo a un revival di sofisticate forme stilistiche provenienti dal passato, spesso anche assai remoto.
Abiti – costumi – meglio dire, caratterizzati dall’eccesso nei volumi, da architetture ingombranti.
Sono questi il risultato della rielaborazione di fogge vestimentarie alla moda secoli fa. In uno spasmodico tentativo di stupire il proprio pubblico, fashion designer storici ed emergenti collocano sulle passerelle creazioni che, nella maggioranza dei casi, appagano esclusivamente il gusto dei caporedattori di riviste del fashion system, escludendo la gran parte dei consumatori.
Alcuni tra questi indumenti possono essere collocati su un piano puramente artistico.
Vestiti e accessori ideati per far discutere del brand che sono – nella maggior parte dei casi – abiti inindossabili nella realtà.
Nuove crinoline in stile Rococò cercano di porre l’attenzione dello spettatore verso un “sotto” che si sposta “sopra”, rovesciando in tal modo il rapporto tra abito e sottoveste.
La difficile condizione sociale delle donne vissute secoli fa venne delineata sul loro corpo da lingerie costrittive e gabbie metalliche che, attanagliando la silhouette, ne impedivano la libertà dei movimenti. Corsetti e Panier si trasformarono in innaturali estensioni di un corpo sacrificato alla moda e a una società maschilista.
Quale significato è dunque attribuibile alla contemporanea riproposizione di questi volumi eccessivi ed abiti inindossabili?
Tralasciando le sperimentazioni Bauhaus e Surrealiste, già nel 1965 Paco Rabanne «presentò la sua donna del futuro vestita con abiti realizzati da dischi di plastica o di ferro uniti tra loro come in una lorica squamata dell’epoca romana.
Famosa e visionaria la sua collezione chiamata 12 Unwearable Dresses in Contemporary Materials. Ferro, alluminio, plastica e fibre polimeriche sostituirono stoffe comuni. » (Luciano Lapadula «Il Macabro e il Grottesco nella Moda e nel Costume» ed. Progedit 2017).
Di lì a poco stilisti come Jean Paul Gaultier, Rei Kawakubo, Issey Miyake, furono artefici della creazione di Abiti-Manifesto. Abiti che raccontarono, in modo avveniristico, visioni e aspettative sociali, in cui le certezze svanivano o si imprigionavano in bustini e gabbie dal sapore Fetish e Rétro.
Nel 1980 Miyake realizzò un corpetto in plastica rossa sbalzato all’interno. Westowood e Gaultier riscoprirono – tra ’80 e ’90 – il gusto per un “intimo” costituito da stringhe, stecche e zip cucite su materiali insoliti. Fu poi operata la “distruzione – decostruzione” del vestito.
Comme des Garçons nella spring-summer 1993 anticipò Martin Margiela presentando abiti incolore, laceri, strappati.
Ancora il “sotto” emergeva sul “sopra” evidenziando fodere e cuciture insieme a nuovi aspetti dell’esibire e vivere la moda.
Proviene quindi da un certo rifiuto di un presente che disattende gioia e speranza questo rifugio in estetiche del passato, e il fenomeno è quanto mai attuale.
Durante la Paris Fashion Week per la Spring Summer 2020, Thom Browne ha allestito una scenografia che ci ha riportato nei Giardini di Versailles.
In un’atmosfera asettica si muovevano eteree modelle in abiti bianchi, crinoline e acconciature riprese dal ‘700.
Tra volti seminascosti da tessuti chiari e luminosi emergevano timidi volti, per ricordarci che sotto il vestito, oggi, esiste un’identità in cerca di rinnovazione, in cui passato e futuro, si spera, possano condividere il presente.
Text: Luciano Lapadula