A dieci giorni dall’uscita, il nuovo album di Beyoncé, Cowboy Carter, macina record: è il più ascoltato su Spotify in un singolo giorno del 2024 con oltre 87 milioni di stream e il miglior debutto dell’anno su Amazon Music. La cantante texana ha ricevuto l’”Innovator Award” agli iHeart Radio Music Award e, con il brano “Texas Hold’em”, è la prima donna nera a raggiungere per due settimane consecutive la numero 1 della classifica Hot Country Songs di Billboard. Ma l’ultimo progetto non ha soltanto confermato la fama planetaria della regina del pop: dalla sua pubblicazione, infatti, negli Stati Uniti è scaturito un acceso dibattito sulle origini del country e più in generale suo ruolo centrale che la comunità afroamericana ha avuto nella crescita dell’industria discografica.
Cowboy Carter: un album corale
Il disco può vantare un cast stellare, artisti sempre al servizio dei brani insieme a Queen Bey, come Dolly Parton, Willie Nelson, Linda Martell, Stevie Wonder, Chuck Berry, Miley Cyrus, Post Malone, Jon Batiste, Rhiannon Giddens, Nile Rodgers, Robert Randolph, Gary Clark, Jr., Willie Jones, Brittney Spencer, Shaboozey, Reyna Roberts, Tanner Adell e Tiera Kennedy. Nella svolta country, Beyoncé nasconde un prisma di stili e lo fa a modo suo: il country è un genere figlio del blues e quindi di matrice nera, ma che per una serie di coincidenze e scelte di mercato da parte delle etichette discografiche, dal dopoguerra è diventato “di bianchi e per i bianchi”, consolidandosi così in un circuito autoalimentato.
Il rifiuto dei bianchi
Cowboy Carter è un’astronave che atterra in una cittadina prima di ripartire per galassie lontane: alla fine non sconvolge niente, ma lo spostamento d’aria si sente, perché in fondo il country da Occidente è un qualcosa di più piccolo e stereotipato rispetto alla stessa Beyoncé. Il genere amato dall’America rurale secondo la cantante deve essere inclusivo e aperto a chiunque voglia esplorarlo, è una piattaforma artistica che riunisce il circuito chitlin – così veniva chiamato l’insieme di chiese, nightclub, ristoranti e teatri che hanno lanciato le carriere di Ray Charles, Aretha Franklin e Tina Turner – e i Beatles, le arie da camera di Tommaso Giordani e i Beach Boys, insieme anche ai suoni r&b e hip-hop più contemporanei.
Il viaggio di Cowboy Carter parte da “American Requiiem” e termina con “…Amen”, quasi l’intero album (monumentale, 27 tracce per 79 minuti di musica) sia una celebrazione religiosa. Perché in effetti è questo ciò che l’ex Destiny’s Child vuol fare, glorificare un genere ripercorrendone le origini: si tratta di una rivalsa per lei che nel 2016, durante un’esibizione di “Daddy Lessons” ai Country Music Association Awards, non venne apprezzata dal pubblico composto principalmente di uomini bianchi che non si sentivano rappresentati da un’artista che fa della complessa semplicità pop il proprio marchio di fabbrica.
“A causa di quell’esperienza, ho approfondito la storia del country, ho studiato. La musica può unire tante persone in tutto il mondo. Le critiche che ho affrontato quando ho fatto il mio ingresso in questo genere mi hanno spinto a superare i limiti che mi erano stati imposti”.
La polemica dei fan
L’album, accolto molto positivamente dal pubblico e dalla critica internazionale, è però anche protagonista di una polemica social – scatenata da migliaia di fan -, diventata virale soprattutto negli Stati Uniti, a causa dell’assenza nelle copie fisiche di alcune tracce disponibili nella versione digitale: nel vinile mancano i cinque brani Oh Louisiana, Spaghettii, Ya Ya, The Linda Martell Show e Flamenco, mentre nel cd non sono pervenuti i primi quattro titoli.
Secondo la teoria più accreditata, la versione fisica dell’album non coinciderebbe con quella definitiva perché la popstar avrebbe non solo modificato la tracklist fino all’ultimo minuto disponibile, ma anche scelto il titolo Cowboy Carter in un secondo momento rispetto all’avvio della lunga lavorazione della versione in vinile, che sull’artwork di copertina mostra infatti la scritta alternativa Act II: Beyoncé.