La moda è uno dei settori più impattanti in termini di inquinamento, consumismo e sprechi con un effetto assai significativo sulla società e l’ambiente. La piattaforma online Conscious Fashion and Lifestyle Network ha lo scopo di costruire collaborazioni e sinergie per implementare in questo settore gli obiettivi contenuti dalla Agenda 2030 dell’Onu. Per realizzare una t-Shirt si impiegano 2700 litri d’acqua, il fabbisogno di tre anni di una persona. Questo semplice ma significativo esempio fa comprendere come il comparto della moda abbia un impatto assai significativo sulla società e l’ambiente. Quella della moda è un’industria globale dal valore di 2,4 trilioni di dollari, che impiega circa 50 milioni di persone ma è anche considerata una delle più inquinanti al mondo. Otto sono le principali problematiche derivanti dal comparto della moda in termini di sostenibilità.
Un settore altamente inquinante
L’industria della moda ha conseguenze di non poco conto sull’atmosfera terrestre. Si pensi che soltanto il trasporto dell’industria dei jeans produce il 13% delle emissioni annue totali di CO2. Più in generale e ragionando in prospettiva, le emissioni di CO2 prodotte dal comparto della moda aumenteranno addirittura del 60% nei prossimi 12 anni. Altro aspetto da non sottovalutare è lo sfruttamento e l’inquinamento delle risorse idriche, tra cui l’acqua: come detto, servono ben 2700 litri d’acqua solo per realizzare una t-shirt!
Anche lo smaltimento di tutte le sostanze tossiche con cui vengono trattati i capi di abbigliamento comporta un ulteriore danno ecologico inestimabile alle risorse idriche dato che molte fabbriche scaricano le acque inquinate in fiumi, mari e falde sotterranee. Il fenomeno è così rilevante che il 20% dell’inquinamento delle risorse idriche mondiali dipende dall’industria della moda e la pericolosità è maggiore se si pensa che tali scarichi hanno effetti negativi sull’uomo, sugli animali e sull’ambiente circostante.
L’inquinamento è dato anche dall’utilizzo di prodotti chimici:
non esiste alcuna attività agricola che impieghi tanti prodotti quanto l’industria del cotone, la cui coltivazione richiede un quarto dei pesticidi prodotti in tutto il mondo. In Europa tali pesticidi sono vietati mentre in altri parti del mondo, tra cui l’India, paese in cui viene coltivata la maggior parte del cotone utilizzato nell’industria della moda, spesso i lavoratori li utilizzano in dosi elevate e senza protezioni. All’inquinamento e al danno verso l’uomo, si uniscono anche lo sfruttamento del suolo che ha innescato un processo di perdita della biodiversità, e la diminuzione delle risorse naturali dato che la fabbricazione ed il trasporto dei capi di abbigliamento si fonda su numerose risorse naturali, tra cui i combustibili fossili, ed umane, attraverso la necessaria manodopera. Già solo nella produzione di jeans, metà dei danni ecologici provocati sono collegati al trasporto e l’altra metà alla raccolta del cotone.
Gli effetti devastanti del consumismo
La moda è uno dei settori più impattanti in termini di consumismo e sprechi: in questi venti anni i vestiti sono diventati sempre più economici e di minore qualità, e ciò ha portato le persone a comprare un numero sempre maggiore di vestiti che vengono utilizzati anche solo per una stagione. L’acquisto di abiti è arrivato ad aumentare del 400% rispetto a venti anni fa. Se da un lato questo ha comportato sempre più consumismo e spreco, dall’altra ha indotto forme di lavoro forzato, tratta di esseri umani e sfruttamento minorile.
Le criticità occupazionali
In termini di sfruttamento delle risorse umane, i dati dell’industria tessile al momento sono allarmanti. Dalle ricerche condotte dal movimento internazionale Fashion Revolution emerge come in Guandong, in Cina, le giovani donne facciano fino a 150 ore mensili di straordinari, il 60% di loro non abbia un contratto ed il 90% non abbia accesso alla previdenza sociale. In Bangladesh i lavoratori che realizzano indumenti guadagnano 44 dollari al mese (a fronte di un salario minimo pari a 109 dollari).
7,4 milioni i bambini costretti a lavorare fin da piccoli per contribuire al mantenimento delle proprie famiglie, diventando vittime di abusi e torture nel 17 % dei casi. Inoltre, nel corso di un’indagine condotta su 91 marchi di abiti solo il 12% di questi abbia intrapreso azioni dirette a garantire un salario minimo legale per i propri lavoratori. In generale, dal punto di vista della qualità di vita, l’attuale ritmo di produzione dell’industria moda compromette il benessere di lavoratori, delle comunità, degli animali e dell’ambiente.
Dato l’evidente impatto sull’ambiente e sull’uomo dell’industria della moda,
le Nazioni Unite e il Dipartimento per gli affari economici e sociali dell’ONU, hanno fondato la piattaforma online Conscious Fashion and Lifestyle Network che riunisce stakeholders, media, governi per costruire collaborazioni che accelerino l’implementazione nel mondo della moda degli obiettivi di sviluppo sostenibile.
La piattaforma è finalizzata ad ingaggiare i portatori di interesse dislocati a livello mondiale in modo da indurli a mettere in atto azioni sostenibili che siano inclusive e trasformative. Le entità leaders si riuniscono periodicamente in concomitanza con le riunioni del calendario ONU e pubblicano report sui risultati ottenuti che illustrano come mobilizzare competenze, innovazione, tecnologia e risorse verso un recupero pieno, sostenibile ed inclusivo per assicurare che tutti, in ogni luogo, possano vivere con dignità, prosperità in un pianeta sano e sicuro.