Psicologo, psicoterapeuta, analista, strizzacervelli. Sono molti i termini che utilizziamo per descrivere una categoria professionale che, nonostante abbia convissuto a lungo con pregiudizi e stereotipi, si sta rivelando sempre più essenziale nella società moderna. Forse perché continuamente esposti a standard inarrivabili e paragoni impossibili, forse perché allontanati dalla asettica lontananza del mondo virtuale, ci ritroviamo davanti a un dato di fatto. Negli ultimi decenni, i disturbi mentali – e le loro diagnosi – sono aumentati sensibilmente. Allo stesso tempo, però, sul fronte dell’accettazione e della normalizzazione della psicoterapia sembrano essersi verificati dei decisi passi in avanti. Perciò, ecco la domanda: come è visto, oggi, l’andare in analisi? È ancora un tabù della società moderna? Perché e quando è giusto andare dallo psicologo?
Psicoterapia e analisi: tabù o ultima frontiera del self-care?
Paradossalmente, ad aprire il dibattito sulla psicoterapia e sull’utilizzo degli psicofarmaci è stato quello stesso mondo che in molti reputano responsabile della stragrande maggioranza di insicurezze, depressioni e disturbi legati all’ansia di oggi. Quello dei social media e, più in generale, dello showbiz. E, dopo i ripetuti appelli di star del calibro di Lady Gaga, Selena Gomez, Demi Lovato, Brad Pitt e – più recentemente – i nostri Fedez e Matilda De Angelis, la sensibilizzazione e la normalizzazione della fragilità mentale sembra aver attecchito, perlomeno tra le generazioni più giovani. Ansia, attacchi di panico, depressione, persino disturbi bipolari sono oggi un argomento di discussione, di incontro e di confronto, piuttosto che vergognose realtà da nascondere al pubblico.
I numeri evidenziati da una recente indagine Ipsos lo confermano. Dai dati riscontrati, appare chiaro che il numero degli italiani che dedicano alla propria salute psicologica l’attenzione necessaria è salito, soprattutto tra le donne e gli under35. Un risultato decisamente incoraggiante, considerato che andare dallo psicologo è stato un vero e proprio tabù fino a pochissimi anni fa.
Un lento cambiamento
“Roba da femminucce”, sintomo di autoindulgenza e mancanza di spina dorsale: per la generazione dei nostri nonni, uomini temprati dalla guerra e dalla povertà, dare peso alle proprie preoccupazioni stando sdraiati sul divano di qualche costosissimo studio non solo sarebbe stato impensabile. Sarebbe stato un vero e proprio affronto. Sentimenti e debolezze andavano semplicemente tenuti nascosti sotto il tappeto: bisognava ignorarli, buttarli giù e raddrizzare le spalle. Una mentalità che – per quanto a molti possa sembrare antiquata – fa ancora parte di molti di noi. Per questo, infatti, non si va dallo psicologo come si va dal dentista, e non lo si ammette con tanta trasparenza. Ma – complici il disorientamento al quale ci hanno improvvisamente messo di fronte il Covid e la precaria situazione internazionale – forse, qualcosa si sta smuovendo.
Salute mentale in Italia, un concetto da rivedere
Secondo gli ultimi dati raccolti, in Italia circa l’80% degli intervistati ha dichiarato che salute mentale e fisica hanno la medesima importanza. Purtroppo, tanto lo Stato quanto il sistema sanitario non sembrano essere ancora di questo parere. Basta dare una scorsa alle cifre investite nelle strutture psicosanitarie e metterle a confronto con ospedali e centri medici per rendersi conto che no, agli occhi dell’Italia la tutela di salute fisica e psicologica non hanno ancora lo stesso peso.
Con solo il 2% di quote riservate al benessere mentale dei propri abitanti, l’Italia e molti altri Paesi europei stanno rischiando di far degenerare situazioni e disagi potenzialmente risolvibili. I dati parlano chiaro: una persona su sei, in Europa, soffre di qualche forma di malattia o disturbo mentale. Si parla ci circa 84 milioni di cittadini europei, molti dei quali non ricevono i farmaci o le terapie necessarie perché trattenuti da un sistema che vuole escluderli o allontanarli.
Perché andare dallo psicologo è ancora così difficile, nonostante sempre più indizi facciano pensare a un cambiamento in vista?
In primis, perché secoli di patriarcato e di machismo ci hanno inculcato l’idea che chi ammette le sue fragilità ed è in grado di chiedere aiuto è automaticamente debole, inaffidabile, persino pericoloso. Inutile negarlo: qualsiasi recruiter si irrigidirebbe se, durante un colloquio di lavoro, il candidato dichiarasse orgogliosamente di essere bipolare e di assumere psicofarmaci con cadenza quotidiana. Da qui la repressione, la vergogna.
In secondo luogo, poi, la rarità (e spesso la disorganizzazione) degli sportelli gratuiti rendono quella della psicoterapia una realtà incredibilmente costosa e inevitabilmente non alla portata di tutti. Il bonus psicologo ha aiutato, sì, ma i fondi statali continuano a non essere sufficiente per un vera e propria rete di salvataggio gratuita. In compenso, sempre più professionisti stanno scegliendo la via dei social – Instagram, TikTok, Twitter – per diffondere messaggi di prevenzione, sensibilizzazione e informazione psicologica là dove possano essere più ascoltati: tra i giovani, secondo le loro modalità e nel loro linguaggio. Perciò sì, le premesse iniziano a farsi incoraggianti. Ma c’è ancora tanto da fare, da svecchiare, da sdoganare. Siamo ancora lontani dalla meta.