Ultimamente potreste aver notato che sempre più marchi di moda promuovono le loro iniziative di sostenibilità, cosa che induce la convinzione che l’industria della moda stia diventando più etica e sostenibile, ma non è tutto verde ciò che luccica; molti stanno solo facendo greenwashing. C’è un crescente fermento intorno ai termini “sostenibile”, “eco-friendly” e “naturale”, in tutto, dalla moda al cibo. In particolare, il crescente interesse per la sostenibilità tra i consumatori Millennial e Gen Z, insieme al loro aumento del potere d’acquisto, sta influenzando le aziende e il mercato. Tuttavia, piuttosto che diventare veramente ecologici, alcuni marchi hanno intrapreso la strada del greenwashing, che sta diventando sempre più crescente e sofisticato.

  • Cosa è il greenwashing?

E’ il tentativo di capitalizzare la crescente domanda di prodotti più etici e rispettosi dell’ambiente promuovendo falsamente sforzi ambientali, senza la reale implementazione di pratiche commerciali che supportano le affermazioni. In poche parole è una tattica comunicativa che le aziende usano per “apparire” più sostenibili di quanto non siano in realtà; attirano consumatori attenti all’ambiente massimizzando i profitti ma, dietro le quinte, utilizzano pratiche commerciali non etiche e metodi di produzione non sostenibili. Non a caso, il termine è stato coniato nel 1986 dall’ambientalista Jay Westerveld quando l’industria alberghiera ha ideato uno degli esempi più clamorosi di greenwashing. La strategia consisteva nel mettere avvisi nelle camere d’albergo, chiedendo agli ospiti di riutilizzare gli asciugamani per salvare l’ambiente, quando invece l’obiettivo era quello di risparmiare sui costi di lavanderia.

Poiché una gamma ampia di aziende impiega con successo queste tattiche di marketing suggestive e talvolta persino manipolative, può essere difficile identificare quali marchi moda utilizzano il greenwashing e quali sono legittimamente sostenibili. Un recente rapporto ha rivelato che oltre il 90% delle affermazioni ecologiche dei principali rivenditori di fast fashion si sono dimostrate infondate.

  • Perché i marchi di moda fanno greenwashing?

Poiché la sostenibilità diventa sempre più alla moda, i grandi marchi vogliono puntare sul vantaggio competitivo di attrarre più consumatori desiderosi di fare acquisti consapevoli. Ma nessun brand può diventare “green” dall’oggi al domani; ci vogliono tempo e risorse, per incorporare la sostenibilità in tutti gli aspetti di un’azienda. Come fanno le aziende a farla franca con il greenwashing? Termini vaghi come “verde”, “etico” ed “ecologico” non hanno alcun significato legale, quindi le aziende non possono essere ritenute responsabili per il falso marketing di se stesse in quanto tali.

Il problema più grande del greenwashing è che induce a credere che un cambiamento sia in atto, quando in realtà è solo un’ illusione. Ad esempio, nel settore moda, il numero di prodotti etichettati come sostenibili, ecologici o etici è aumentato esponenzialmente negli ultimi anni; eppure il tributo richiesto al pianeta dall’industria del fashion è in continuo aumento. Il greenwashing ci culla in un senso di sicurezza e di appagamento ma è solo una cortina fumogena che ci nasconde la realtà.

Quindi, come si fa a distinguere il greenwashing dalla comunicazione reale?

  • Non lasciatevi ingannare dal marketing, affidatevi a fatti e cifre

La trasparenza è sempre il primo passo verso la responsabilità; diffidate di un marchio che pubblica “collezioni consapevoli” ma non utilizza fatti o cifre a sostegno delle sue affermazioni. I marchi che danno davvero la priorità alla sostenibilità si impegnano a condividerla sul proprio sito web e attraverso i propri messaggi; espongono informazioni chiare sui loro fornitori, impianti di produzione, materiali utilizzati e impatto delle loro politiche. È importante guardare un po’ più in profondità, ad esempio dove viene coltivato il cotone di un marchio o riciclato il poliestere, dove viene tinto e prodotto e persino dove si procurano piccole cose come bottoni o cerniere.

Se un marchio afferma che i suoi prodotti sono “cotone biologico al 100%” o “cruelty free”, controllate se ciò è stato certificato. Da Fair Trade, EcoCert e B Corporation a PETA, GOTS o BCI; queste certificazioni servono tutte allo stesso scopo: valutare le pratiche sostenibili di un’azienda. I marchi più grandi hanno maggiori probabilità di avere prove sotto forma di certificazioni e i marchi più piccoli hanno maggiori probabilità di avere invece prove sotto forma di foto, video e resoconti personali dei workshop con cui lavorano o possiedono. Le certificazioni possono essere piuttosto costose da ottenere, quindi i marchi più piccoli non sono sempre in grado di ottenerle, anche se le loro pratiche soddisfano o superano i requisiti della certificazione.

  • Il naturale non è sempre ecologico al 100% e il vegano non è sempre sinonimo di cruelty-free

I tessuti naturali sono i preferiti dai marchi sostenibili perché sono traspiranti e biodegradabili ma hanno comunque un impatto. Il cotone e il lino, per esempio, hanno ramificazioni sociali e ambientali al di là di ciò che possiamo vedere e sentire. Il naturale non è sempre ecologico; ad esempio, la maggior parte del cotone viene coltivata con pratiche agricole ad alta intensità di sostanze chimiche industriali. Lo stesso vale per i materiali vegani. Ad esempio, alcuni marchi affermano di utilizzare la pelle eco vegana, quando in realtà utilizzano PVC tossico derivato dal petrolio; sì, è vegano, ma di certo non è sostenibile.

cosa è greenwashing moda Life&People Magazine Quindi, a meno che non troviate prodotti vegani di origine vegetale, prendete anche il termine “vegano” con un pizzico di scetticismo. Imballaggi ecologici e non molto altro: tenete d’occhio coloro che promuovono imballaggi minimali, riciclati o “riciclabili” come strategia principale per ridurre gli sprechi. Anche se questo è un ottimo primo passo, è periferico e forviante. Promuovere questo, senza modificare l’intero modello di business di un marchio ha scarso impatto.

  • L’irrilevanza e l’insostenibilità dell’essere fast

Un marchio che pubblicizza sostenibilità o etica solo perché segue standard di base già richiesti dalla legge pubblicizza l’irrilevante. Per esempio quando afferma che la sua produzione è etica perché paga un salario minimo o non utilizza il lavoro minorile. Questi requisiti sono già richiesti dalla legge nella maggior parte del mondo, quindi questo non rende un marchio “etico”, significa solo che stanno seguendo i requisiti legali. I brand di fast fashion che affermano che le loro collezioni sono consapevoli, circolari o eco-compatibili, non riconoscono l’insostenibilità del loro stesso modello di business. Sì, utilizzare materiali e coloranti più ecologici è sicuramente un passo nella giusta direzione, ma spingere per una produzione infinitamente maggiore, più economica e più veloce non è e non sarà mai sostenibile.

Green Fashion Awards Life&People Magazine lifeandpeople.itQuesto approccio richiede troppe risorse che, anche se “rinnovabili”, sono consumate ad un ritmo più veloce di quanto possano essere effettivamente rinnovate; creano sprechi eccessivi, incoraggiano il consumo eccessivo e portano inevitabilmente allo sfruttamento del lavoro. Un brand non può essere sostenibile se non garantisce condizioni sicure per i lavoratori e un salario equo e dignitoso. Qualsiasi marchio realmente impegnato nella moda sostenibile deve concentrarsi su capi di maggiore qualità e più duraturi. Realizzare capi con tessuti “green” non aiuta molto se quei capi si deteriorano poco dopo essere stati indossati o se passano di moda dopo una stagione.

La sostenibilità è un percorso difficile che bisogna intraprendere per noi e per il futuro

Comprendere la verità sulla sostenibilità e l’etica di un marchio di moda, aiuta a prendere decisioni di acquisto più informate in linea con i propri valori personali. Diventare sostenibili al 100%, sia come marchio moda sia come consumatore, non è un’impresa facile e tutti si trovano ad un punto diverso del percorso, ciò che aiuta è la trasparenza e la consapevolezza.

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