“Dammi tempo e ti darò una rivoluzione“, disse una volta il compianto designer Alexander McQueen, scomparso l’11 febbraio 2010 all’età di 41 anni.
Era promessa impegnativa, ma è riuscito a mantenerla, diventando uno degli stilisti più venerati del 21°secolo e uno dei pochi eletti elevato allo status di artista. Ma quando è entrato per la prima volta sulla scena, il mondo della moda è rimasto totalmente scioccato, tanto da definirlo “l’enfant terribile” o “il teppista della moda inglese”. Eppure, il contributo di Alexander McQueen alla moda è stato diverso da qualsiasi altro stilista prima di lui; con le sue tecniche di sartoria sovvertenti, la profonda introspettiva e la teatralità rivoluzionaria nelle presentazioni dal vivo, ha trasceso la definizione di designer sfacciato per diventare un genio.
Gli studi non gli hanno insegnato il talento, gli hanno semplicemente fornito uno sbocco attraverso il quale affinarlo.
Lee, come era conosciuto da ragazzo, era il più giovane di sei fratelli e sorelle di una famiglia operaia inglese (suo padre era un tassista), come molti altri nell’East London. Niente, all’epoca, avrebbe fatto pensare che da ragazzo goffo e timido sarebbe diventato uno degli stilisti più importanti del mondo. A soli 16 anni, McQueen ha lasciato la scuola per lavorare a Savile Row, il famoso quartiere londinese di sartoria su misura, con i sarti Gieves & Hawkes e i costumisti Berman & Nathans. A 20 anni si è trasferito a Milano per lavorare con Romeo Gigli per poi tornare tre anni dopo a studiare alla Saint Martin’s School of Art grazie al sostegno economico offerto dalla sorella.
L’incontro con Isabella Blow
Il progetto della sfilata per la tesi di McQueen intitolato ”Jack the Ripper Stalks His Victims” (Jack lo squartatore perseguita le sue vittime), è stato il punto di partenza della carriera del giovane designer. La sua collezione mostrava un tipo di romanticismo oscuro e contorto che era assente nella moda dell’epoca. Aveva persino cucito ciocche di capelli nella fodera dei vestiti, come riferimento alle prostitute dell’era vittoriana che vendevano i loro capelli agli amanti. Già allora aveva gettato le basi del suo lavoro futuro. Isabella Blow, un’influente stilista ossessionata dai cappelli, che era presente alla sua sfilata, rimase talmente folgorata dall’estetica e dal tipo di costruzione degli abiti, da acquistare la collezione in tutta la sua interezza. I due divennero inseparabili. Isabella Blow divenne mentore e musa ispiratrice di McQueen, tanto da convincerlo a cambiare il nome da Lee ad Alexander per farlo sembrare un designer più grandioso.
McQueen fonda la sua etichetta omonima con Isabella Blow al suo fianco.
La sua prima collezione personale chiamata “Highland Rape” inizialmente non fu ben accolta dalla stampa di moda, che la definì “aggressiva e inquietante”. Il nome della collezione si riferiva ai brutali sgomberi degli altopiani scozzesi da parte delle forze britanniche nel XVIII e XIX secolo. Gli abiti erano controversi. Modelle macchiate di sangue in abiti di pizzo strappato, tartan scozzese e sartoria provocatoria, hanno sfilato sulla passerella con aria sconvolta. Per McQueen, la base della colonna vertebrale era la parte più interessante del corpo. Un capo della sfilata, soprannominato “bumster” (barbone), un pantalone a vita bassa, che allora ha suscitato scandalo per la cruda esibizione del derrière, ha inaugurato e lanciato la tendenza poi diventata popolare durante i primi anni 2000 dei jeans a vita bassa.
Dopo aver prodotto otto collezioni, a McQueen è stato offerto il posto di direttore creativo di Givenchy nel 1996, succedendo a John Galliano. Ma la sua prima collezione ispirata all’antichità greca, non ha avuto successo; Alexander si sentiva fuori dalla sua zona di comfort, costretto ad attenuare l’aura ribelle che era invece il suo Dna. La collaborazione quindi non è durata a lungo e dopo soli quattro anni ha ripreso a creare per la sua linea.
Come designer ha lasciato in eredità la sua visione iconica sfidando costantemente i confini della moda.
Alexander McQueen si è tragicamente tolto la vita l’11 febbraio del 2010 all’età di 41 anni, poco dopo la morte di sua madre e di Isabella Blow, la sua amica e musa di una vita. Il suo atteggiamento anti-establishment ha sì offeso l’industria a cui apparteneva, ma allo stesso tempo ha portato qualcosa di profondamente viscerale nel mondo della moda, attraverso mezzi insoliti e spettacoli teatrali. Al di là di un’estetica riconoscibile, ciò che ha davvero cementato l’eredità di McQueen sono stati i modi con cui presentava le sue collezioni: veri e propri spettacoli teatrali che hanno creato narrazioni. Produzioni come “Voss”, “No. 13” e “Scanners” hanno creato momenti che richiedono visualizzazioni ripetute, trascendendo il concetto di cosa potrebbe essere una sfilata e, a sua volta, il concetto stesso di moda.
Il primo e allora l’unico.
Ha creato un set da giostra anni prima che Chanel e Louis Vuitton facessero lo stesso. L’ologramma di Kate Moss venne usato per il finale di una sfilata molto prima che organizzatori di concerti adattassero la tecnologia per riportare in vita i musicisti scomparsi. Ma ha anche attinto dal mondo dell’arte per creare performance in modi che ancora oggi sono innovativi. Sempre in anticipo sui tempi, è stato anche tra i primi designer a trasmettere in streaming una sfilata di moda su Internet; ha presentato la sua ultima collezione su SHOWstudio, attirando così tanti spettatori da mandare il sito in crash.
E’ difficile non chiedersi cosa avrebbe potuto fare oggi come designer Alexander McQueen.
In un’epoca in cui i designer sono incoraggiati a commentare la politica, come avrebbe interpretato i problemi globali di oggi? Oppure, in un mondo in cui la tecnologia sta cambiando sempre più il modo in cui viene prodotta la moda; come avrebbe incorporato nuove tecnologie, come la stampa 3D, nel suo lavoro? E in un momento in cui le collaborazioni e le capsule collection sono diventate preponderanti, con quali menti creative avrebbe scelto di lavorare? Poiché sempre più brand creano film narrativi per conquistare la pubblicità digitale, quali sogni (o incubi) avrebbe inventato? Ciò che resta di lui è un corpus di lavori così affascinante che sfida la definizione più basilare della moda di cambiamento costante. È diventato una figura mitica, proprio come quelle che lo hanno ispirato.
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