Alla Milano Fashion Week, body positivity e inclusività sono stati due messaggi, nella maggior parte dei casi, per lo più trascurati. Durante la settimana della moda donna, tuttavia, sono emersi, in tal senso, l’impegno e le scelte di alcuni stilisti nella rappresentazione della diversità del corpo, dell’età, del genderless, della multietnia. Tra questi, Versace, Emporio Armani, Tod’s, Etro e gli esempi di giovani brand come Marco Rambladi, Marni, Act N°1.

body positivity inclusività Life&People Magazine LifeandPeople.it

La moda deve calarsi nella contemporaneità e schierarsi, normalizzando i messaggi di eterogenea inclusività e body positivity.

Quasi tutti i brand hanno scelto per le passerelle modelle tradizionali nella classica taglia mannequin 36/38. In particolare, feroci polemiche mediatiche si sono scagliate contro la sfilata di Blumarine: il marchio ha scelto modelle magrissime per una collezione ispirata agli anni 2000 in cui l’abbigliamento era pensato per fianchi stretti e pance piatte.

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Il pubblico urla, ormai, la richiesta di rappresentazione totale del mondo femminile. Ma, anche se non c’è più spazio per il senso di inadeguatezza proveniente dal confronto con longilinee e impeccabili modelle, la moda fatica a uscire dagli schemi. Fatica a portare nel quotidiano un cambiamento reale, che non si limiti al manifesto di una pubblicità inclusiva, esposto soltanto per il tempo di una campagna pubblicitaria.

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A imperare è ancora la netta separazione tra la taglia mannequin e i corpi XXL, allontanati dalle passerelle, e mostrati solo in occasione di collezioni create ad hoc per loro.

Il messaggio di body positivity, nel caso di Donatella Versace, viene affidato, all’immagine ormai conosciuta, consolidata e “rassicurante” delle due curvy top model, Paloma Elsesser e Jill Kortleve. Sia nella propria collezione che nella sfilata “Fendace” con Kim Jones, Donatella ribadisce la sua dedizione al corpo delle donne, per liberarlo dagli imperativi estetici dominanti. Spicca tra le curvy Precious Lee, testimonail del brand, ammazzone afroamericana dalla bellezza contaminata, a cui la stilista affida il compito di riassumere lo schieramento attivo del marchio. Non sono mancati, in ogni caso, i commenti negativi riguardo alle scelta della designer di portare sulla passerella i corpi formosi di Lourdes Ciccone e della top model neomamma Gigi Hadid.

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A guadagnarsi gli onori della cronache, in questo panorama, non sono state le grandi Maison, ma brand giovani degli stilisti emergenti.

Questi, essendo testimoni diretti di un sistema da rivoluzionare e da adeguare a una nuova sensibilità, impiegano la parola “diversità” come un sinonimo di democrazia umana. Portano in scena un’idea di sorellanza sovversiva basata su soli canoni morali, ignorando quelli estetici. Primo, tra questi, Marco Rambaldi, designer in grado di trasformare le sue sfilate in un vero specchio della società. Con le sue scelte anticonvenzionali in fatto di casting, porta in passerella persone di diversa età, etnia e taglia.

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Supera stilisticamente e culturalmente dei confini mentali, mostrando il corpo liberato e la ricchezza della bellezza dell’essere umano. Il designer trova la sua ispirazione in un centro sociale bolognese nel quale si pratica, da molti anni, l’assolutismo dell’autodeterminazione femminista e LGBTQI+. Vediamo sfilare, così, coppie di donne non più giovani, mano nella mano, modelli queer e non binari; corpi morbidi che camminano, orgogliosi e privi di vergogna, in aderenti tute punk color carne, uomini con minidress floreali all’uncinetto. I suoi abiti sono filosofici, ma anche sensuali nella libertà di esibizione del corpo.

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I modelli di Rambaldi presentano make-up e hairstyle diversi, al fine di esaltare l’unicità e le caratteristiche individuali di ognuno di loro.

L’abito non serve più per esprimere solo un gusto, ma anche la propria identità e la propria anima, come se fosse, quasi, l’espressione di un messaggio politico attraverso il corpo. Una filosofia condivisa anche da Marni che sceglie modelli e modelle molto diversi tra loro per stile e nazionalità, rispecchiando la pluralità incarnata dal target del suo pubblico. La scelta di far indossare i capi a persone con diversa fisicità e attitudine gli permette di esibire anche la versatilità delle sue creazioni e il loro adattamento sul corpo a seconda di chi li indossa.

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Nella stessa direzione di inclusività si muove Act N°1 , firma di un brand naturalmente multiculturale dalle sue origini.

Le indossatrici sono mature, formose, musulmane; sfilano fianco a fianco per lanciare il messaggio di dichiarata volontà di rendere tutte le donne libere. Esempio virtuoso, quello della sfilata Act N°1, che dimostra la reale intenzione di spianare la strada al cambiamento concreto, e non con le parole. La collezione, tra fiocchi e vestiti rigidi come sculture, riflette una condizione femminile di costrizione, ancora ingabbiata da retaggi culturali.

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Le balze su giacche e felpe diventano metafora simbolica e denuncia della pratica criminale dei matrimoni in età infantile, discorso, purtroppo, ancora di bruciante attualità. In un finale scenografico, le modelle si liberano da gabbie e corsetti ottocenteschi e iniziano a danzare sulle note di musiche classiche; salendo sulle punte, sembra stiano per spiccare il volo, come fossero arabe fenici.

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Il corpo non può, in nessun modo, essere costretto all’appiattimento e all’omologazione ad un canone massificato imperante. E questo encomiabile esempio di risveglio sociale e culturale, insieme ad altri, tra gli stilisti emergenti, ci dimostra l’intenzione reale della nuova moda di aprirsi, a partire da un modello unico di riferimento, verso una molteplicità di espressioni umane, priva di colonizzazioni estetiche e culturali.

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