San Mauro Pascoli è un borgo romagnolo, diviso fra terra e mare; fra campi seminati e pianure distese, “spalancate” in mezzo al verde, verso le colline.

È qui che il 31 dicembre del 1855 nasce Giovanni Pascoli, poeta della vita campestre, della fanciullezza spezzata e della natura.

La casa natale, oggi come allora, s’affaccia su un antico giardino, regno indiscriminato delle piccole cose,

descritte nell’opera poetica, Myricae.

Dalla casa materna, però, il poeta si separa presto, all’età di sette anni, periodo in cui si trasferisce a Villa Torlonia, assieme alla famiglia.

È qui che una sera d’estate si apre la falla in cui precipita la sua infanzia.

Suo padre, amministratore della Tenuta, viene assassinato.

È il 10 agosto del 1867: s’immaginano il silenzio, i fiori notturni, “l’odore che passa col vento” nella terra estiva.

Una fucilata, un solo colpo viene sparato da dietro una siepe mentre Ruggero guida il suo calesse, sulla strada di casa.

L’omicidio, opera di criminali, cade nell’omertà.

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Da questo momento si rompono definitivamente i sogni infantili del poeta: la madre deve far ritorno alla casa natale.

Il nido è “un’ombra sotto il cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito e immortale” e i giorni non sono più gli stessi dopo la disgrazia.

Entrando in casa, oggi, si possono ritrovare le stesse stanze d’un tempo.

Qui non entrano il pianto d’una capinera e le ombre nere del mondo: ci si sofferma, invece, sul silenzio, sulla luce che penetra dalle finestre illuminando la “casa romita”.

La prima stanza da visitare è la cucina.

Gli ospiti possono soffermarsi sull’antica travatura in legno del soffitto e non è difficile immaginarsi la madre del poeta davanti all’acquaio in pietra, con le dita immerse nell’acqua.

La direttrice del museo, Rosita Boschetti, spiega:

«È l’unica parte della casa rimasta intatta, nonostante la guerra e i conseguenti bombardamenti».

Dalla cucina al salotto, fino alle stanze da letto, il visitatore sarà guidato attraverso un percorso multimediale, estremamente suggestivo, dove ritorna il leitmotiv del fanciullino interiore, che si lascia afferrare dall’intuizione e non dal ragionamento; quel fanciullino tanto amato dal poeta, destinato a restare innocente al di là del tempo trascorso.

Al primo piano, invece, si trova lo studio che il Pascoli aveva a Bologna, quando era professore di Letteratura Italiana all’Università.

«Qui sono conservati documenti d’epoca – afferma Rosita – le prime edizioni delle sue opere, i vocabolari e giornali come ‘Il Resto del Carlino’ del 7 aprile 1912, uscito immediatamente dopo la sua morte.

Davanti allo scrittoio si può osservare anche una sedia, dove sono incise le iniziali di Ruggero Pascoli (R.P.)».

Di fronte allo studio si vede la grande stanza matrimoniale, dove è conservata anche la culla in legno del poeta, con inciso un nido, e una teca con le lettere che Giovanni inviava all’amico sammaurese Pietro Guidi.

In questa stanza i fratelli dormiranno attaccati per settimane intere, dopo la tragica scomparsa del padre.

«Si devono aprire le stelle/ nel cielo sì tenero e vivo» – «o stanco dolore, riposa» – «È quella infinita tempesta finita in un rivo canoro» – «sentivo mia madre e poi nulla, sul far della sera».

Ma Giovanni sarà costretto a staccarsi di nuovo dalla casa d’infanzia per andare a studiare a Urbino.

Dopo gli studi liceali si trasferirà prima a Firenze e poi a Bologna, dove si iscrive alla Facoltà di lettere, appassionandosi a idee anarchiche.

«Nel periodo di militanza più attivo  – ci ricorda Rosita Boschetti – il poeta viene schedato più volte dalla Polizia in compagnia di Giuseppina Cattani, internazionalista iscritta alla facoltà di Medicina.

Non mancheranno, inoltre, in questo periodo comizi e manifestazioni pubbliche, che gli costeranno mesi di carcere.

Dopo la laurea trova impiego come professore a Matera, al Liceo “Emanuele Duni”.

Il 21 settembre 1884 viene trasferito a Massa, al Liceo Pellegrino Rossi».

Giovanni sceglierà come residenza la casa di via della Zecca, fuori dal centro storico, proprietà degli ebrei Ascoli, circondata da orti e dallo zaffiro del mare calmo, in lontananza, “dove vanno le stelle/ tremolano l’onde”.

«L’avvenire mi si presenta bello e tranquillo – riferisce in una lettera al cugino, Antonio Pascoli – pieno zeppo di felicità, tra gli aranci e i loro soavi effluvi, tra i colli tutti verdi col mare davanti tutto azzurro, e sopra tutto coi miei cari adorati studi. Finalmente!».

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È questo il periodo in cui frequenta l’amico e collega Francesco Agnoloni, insegnante di storia, con cui si ritrova a bere nella cantina di Battista Milani, al Borgo del Ponte o all’osteria della Pergola.

Ma è solo questione di tempo ormai: “il nido”, presto, si sarebbe ricostituito con Ida e Maria, le sorelle finora rimaste a vivere a Sogliano, presso una zia.

Nelle lettere al fratello, Giovanni confessa di essere entrato in una truce fissazione: «Io credo che esse, pel nostro allontanamento, per la nostra trascuratezza d’altra volta, non ci ameranno mai come noi vorremmo! Povere bambine!».

Ma saranno proprio gli anni livornesi a espandere nella sua mente l’idea dell’amore perduto.

Nell’ottobre del 1887 il poeta viene chiamato ad insegnare al Liceo Niccolini di Livorno, dove si trasferirà con entrambe le ragazze.

Il menage familiare si rivela, subito, un’arma a doppio taglio.

Gli amori del Pascoli saranno, d’ora in poi, tutti amori infranti.

Uno degli ultimi, quello per Lia, figlia del musicista e compositore Emilio Bianchi, sarà ricordato così da Maria:

«A farla breve egli se ne innamorò quasi di colpo senza aver avuto tempo di prevederne il pericolo e sfuggirlo come altre volte eroicamente l’aveva sfuggito pensando alle sue condizioni famigliari».

Il nido è destinato a sfaldarsi.

Le calde mura della casa d’infanzia sono state abbattute dal vento del destino, e dentro ai sogni del poeta non c’è più nessuno; tutto è svanito: “vanite anche le strade”.

Nascono i primi attriti; le prime insofferenze che scardinano il suo equilibrio emotivo.

«A me tocca nasconder tutto e, persino, mostrarmi ilare – afferma scrivendo a Raffaele – Non facciamo accuse; ma capirai che la convivenza con due sorelle, piuttosto sospettose e dubbiose, non è come la vita in comune con una moglie, che di voi sa e deve e vuole saper tutto e vi fa più leggero il carico addossandosene parte».

Giovanni si può dire, così, un “lacerato d’amore”: lacerato dall’affetto per le sorelle, lacerato, in fondo, dal desiderio di un matrimonio.

«Uscita di scena Ida, andata in sposa a Salvatore Berti – continua la direttrice – il poeta sprofonda in una voragine emotiva.

Il suo matrimonio, celebrato il 30 settembre 1895, reso possibile grazie all’impegno di Giovanni, che le procura una dote adeguata, finirà per spezzare definitivamente il nido originario».

Disilluso e costretto al non-amore, Pascoli si trasferirà negli ultimi anni a Castelvecchio, con Mariù.

Morirà, infelice, il 6 aprile del 1912.

Non basteranno a salvarlo la placidità del luogo: gli orti, le vigne; gli studi latini e danteschi.

Giovanni Pascoli muore e, morendo, resta per sempre il poeta delle cose viventi, delle cose “tacite al vespro puro”; di una casa, la prima, quella d’infanzia, mille volte eterna ai suoi e ai nostri occhi, “tutta fiorita al muro di rose rampicanti”.

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