Il 23 febbraio scorso è arrivato nelle sale italiane “The Whale”, l’ottavo lungometraggio di Darren Aronofsky apprezzatissimo soprattutto per la straordinaria interpretazione di Brendan Fraser, calatosi nei panni di un uomo morbosamente obeso. Il film ha ricevuto un’accoglienza decisamente divisiva. Tra le tante lodi in molti hanno accusato infatti la pellicola di essere grassofobica, lamentando soprattutto l’uso della cosiddetta fat-suit, tuta generalmente utilizzata sul set per aumentare le forme degli attori. Ma cosa è la grassofobia? E soprattutto, siamo sicuri che c’entri davvero con il lavoro del regista statunitense? 

La grassofobia

Si tratta di una costola del più ampio “body shaming”, termine generalmente utilizzato per indicare qualsiasi tipo di azione discriminatoria finalizzata a screditare o umiliare una persona per il suo aspetto fisico. In particolar modo con grassofobia (in inglese “Fat shaming”) dunque, stando al dizionario Treccani, si intende un “atteggiamento di ripulsa della grassezza e di discriminazione nei confronti delle persone grasse o considerate tali“.

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Le conseguenze di un atteggiamento inaccettabile

Un comportamento dunque gravissimo, in grado di avere delle conseguenze estremamente dannose nella persona offesa. Il termine infatti abbraccia un campo molto più ampio, non riferendosi espressamente a soggetti gravemente obesi, ma a chiunque mostri provvisoriamente e con frequenza un peso maggiore rispetto alla media. Tutti possono essere vittime di grassofobia, e a dimostrarlo in modo esemplificativo sono i ripetuti commenti rivolti quotidianamente a personaggi pubblici: dai giocatori di calcio non in forma a tutti i personaggi che gravitano intorno al mondo dello spettacolo (pensiamo ad esempio a quanto successo nei mesi scorsi a Vanessa Incontrada).

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Il risultato è tragico: sono sempre più frequenti infatti nell’ultimo periodo i tentativi di suicidio di persone non in grado di saper gestire il problema con il loro corpo in relazione alla società. Anche perché, come dimostrano gli studi, spesso le vittime vengono risucchiate da una sorta di loop temporale che porta loro a ingrassare ancor di più, fino a due volte e mezzo del normale, mettendo seriamente a rischio la loro salute cadendo in un comportamento autodistruttivo.

“The Whale” grassofobico?

Appare curioso quanto accaduto con l’uscita del film di Aronofsky. L’Opera del cineasta infatti racconta gli ultimi giorni da relegato in casa di Charlie, Professore d’Inglese che, non riuscendo più a gestire i suoi 270 kg, decide di abbandonarsi completamente fino a giungere al tragico, quanto prevedibile, epilogo. L’obiettivo del prodotto audiovisivo è chiaramente quello di proiettare al grande pubblico un ritratto di terrificante umanità, di solito non mostrato nei principali media. “The whale” quindi si presenta come una pellicola in grado di sensibilizzare e stimolare una campagna di prevenzione verso una malattia: l’obesità, spesso affrontata in modo sbrigativo anche a causa della crescita dell’interesse del problema dei social network.

Cosa è grassofobia Life&People MagazineSecondo un sondaggio statunitense sembra che il livello di attenzione verso i disturbi alimentari sia aumentato in modo considerevole grazie proprio ai social. Più che informarsi sui giornali o sulle riviste online oggi l’utenza preferisce seguire content creator e pagine di divulgazione su piattaforme come Instagram e Tik-Tok, strumenti di comunicazioni iper intuitivi ma che, per ragioni meramente tecniche (durata, eccessiva schematizzazione) soffrono di limitazioni.

La visibilità porta il problema a galla

Sembra non reggere inoltre l’accusa diretta rivolta ad Aronofsky e Fraser, “colpevoli” secondo i detrattori di aver scelto di optare per la tutta la fat suite al fine di ridicolizzare il personaggio Charlie. Delle critiche insensate che hanno mosso anche l’attore, il quale ha respinto le accuse al mittente attraverso le pagine del Los Angels Times:

«Far indossare un costume a un attore per simulare l’aumento di peso per il personaggio ha ridotto l’autenticità dei film nel corso degli anni. Normalmente si tratta di un costume indossato da un attore abbastanza atletico che viene usato per denigrare un personaggio. Ma non è quello che abbiamo fatto noi, il mio obiettivo era quello di interpretare il ruolo con abilità, cura e preparazione».  

Ma a prescindere da tutto è proprio la visibilità che può aiutare a risolvere il problema. Negli Stati Uniti, fin dal 9 dicembre, giorno della relase della pellicola nei cinema, il tema dell’obesità e della grassofobia (problematica molto presente in tutto il Nord America) è tornato ad essere estremamente presente nel dibattito pubblico, ottenendo dunque molta più attenzione rispetto ad altri periodi. Aronofsky grazie alla sua estetica è riuscito a confezionare un’esperienza emotiva, squarciando un vero e proprio varco sullo schermo che ha consentito agli spettatori di entrare in profonda empatia con il personaggio Charlie, accompagnandolo in profondità verso la le viscere più oscure del proprio disagio, intraprendendo dunque un’operazione contraria rispetto alle accuse lanciate. Vedere per credere.

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