Il 23 maggio del 1992, esattamente 30 anni fa il mondo si è fermato. Giovanni Falcone, uno fra più preparati e stimati giudici antimafia che l’Italia abbia mai conosciuto, fu brutalmente ucciso in un vile attentato di stampo mafioso insieme alla moglie Francesca Morvillo e ai poliziotti della sua scorta. Tre decenni dopo la strage di Capaci, purtroppo, la mafia è ancora tra di noi, ma lo è anche il ricordo di un eroe, i cui ideali non sono morti e mai moriranno.
30 anni dopo la strage di Capaci: Giovanni Falcone un eroe dimenticato
Nonostante l’importanza di un magistrato come Falcone, ancora oggi di mafia si parla fin troppo poco. Al Nord, in particolare le nuove generazioni, sembrano quasi non avere la percezione di quello che Cosa Nostra effettivamente rappresenta nell’Italia moderna, come se i tentacoli della piovra non si estendessero su tutto il territorio italiano, e oltre.
Tutto accadde in un attimo
Alle 17.56 e 48 secondi di quel 23 maggio, un’esplosione devastante distrusse un tratto dell’autostrada A29 all’altezza dello svincolo per Capaci-Isola delle Femmine. Un attentato organizzato con precisione certosina e con 500 chilogrammi di tritolo. In quel momento tre auto blindate stavano sfrecciando sulla carregggiata: una di esse era proprio quella del giudice Falcone, che si trovava alla guida. All’improvviso, un boato squarciò quel caldo pomeriggio siciliano: Candida Morvillo e Giovanni Falcone vennero sbalzati sul parabrezza, morendo poche ore dopo il trasporto in ospedale. Un attentato organizzato da mesi, nei minimi dettagli, da parte di quello stesso gruppo di mafiosi che furono condannati duranti il maxiprocesso a Palermo.
Falcone: un obiettivo da anni
Fin dal 1983 il giudice era sotto osservazione, anno in cui diede vita insieme ad un gruppo di magistrati al pool antimafia che avrebbe portato a decine di condanne nel più grande processo di mafia di tutti i tempi. Era dunque quasi scontato che Cosa Nostra, prima o poi, si sarebbe vendicata.
La pianificazione della strage
Ad azionare il telecomando è Giovanni Brusca, l’uomo che uccise e sciolse nell’acido Giuseppe Di Matteo, un bambino figlio del pentito che aveva fatto il suo nome collegandolo alla strage. Con lui c’è Antonino Gioè sulla collinetta da dove si vede il passaggio delle auto. Il mandante, secondo quanto hanno confermato inchieste e processi, è il vertice di Cosa Nostra: il capo dei capi, Totò Riina, ma non solo. Sono più incontri e riunioni quelli in cui l’attentato viene pianificato. C’è Matteo Messina Denaro, c’è Bernardo Provenzano. E ancora Leoluca Bagarella, Gioacchino La Barbera, Mariano Agate. Tutti nomi di spicco della Mafia siciliana che vogliono far sentire la loro forza dopo la conferma in Cassazione delle condanne del maxi processo. Falcone non era l’unico possibile obiettivo, come lui allora furono presi di mira Maurizio Costanzo e l’ex Ministro della Giustizia Claudio Martelli.
Fu soltanto l’inizio
La storia ci ha insegnato che la mafia non si è fermata lì. L’organizzazione mafiosa aveva già un altro obiettivo: il giudice Paolo Borsellino, amico e collega fidato dello stesso Falcone. Borsellino morì appena tre mesi dopo, il 19 luglio 1992, in via D’Amelio, sotto il civico dove ai tempi vivevano la madre e la sorella. Insieme a Borsellino persero la vita anche tutti gli agenti della scorta, fra cui Emanuela Loi, la prima agente italiana donna a rimanere uccisa in servizio.
L’eredità di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Giornate come queste sono fondamentali per ricordarci l’importanza del ricordo e del rispetto della legalità. Proprio in questo periodo ogni anno centinaia di studenti viaggiano a Palermo con la nave della legalità, per raggiungere Palermo e fare visita ai luoghi che Falcone e Borsellino hanno reso celebri con il loro lavoro e impegno instancabile, ma anche per incontrare gli uomini che oggi lottano attivamente contro la mafia.
Il ricordo del nostro Presidente della Repubblica: Sergio Mattarella
A trent’anni di distanza dalla strage di Capaci e dalla morte di Falcone, il Capo dello Stato si è espresso in occasione di una solenne cerimonia di commemorazione. Queste le sue parole:
“Sono trascorsi trent’anni da quel terribile 23 maggio, allorché la storia della nostra Repubblica sembrò fermarsi come annientata dal dolore e dalla paura. Il silenzio assordante dopo l’inaudito boato rappresenta in maniera efficace il disorientamento che provò il Paese di fronte a quell’agguato senza precedenti, in cui persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani”.
Dichiarazioni, queste, che dovrebbero risuonare all’infinito, ogni volta che la mafia compie attentati. Le frasi:
“L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa”
devono rimanere per sempre nel cassetto della nostra memoria ed essere recuperate affinché i giovani, -in particolar modo-, sappiano con chi lo Stato Italiano deve ancora oggi combattere.
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